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L'ultimo congedo di TabucchiAntonio Tabucchi è morto a Lisbona, la città dei suoi sogni, il 25 marzo 2012, ed è stato sepolto al cimitero dos Prazeres (dei Piaceri) nel settore dei Letterati. Ed è qui, mentre si celebra il suo funerale, che inizia «Mi riconosci» (Feltrinelli, pp. 143, euro 12,00) di Andrea Bajani, la storia di un’amicizia tra uno scrittore maturo e uno più giovane nata dalla letteratura e alimentata dalle idee sulla scrittura. Un’amicizia durata quattro anni, fatta di libri, di viaggi, di litigi, di incontri fatti insieme. Si erano conosciuti a Parigi e poi rivisti a Vecchiano, alle porte di Pisa, dove Tabucchi aveva una casa, e a Lisbona. Quando si ammala, per un cancro ai polmoni, e si sottopone alla chemioterapia, il narratore Bajani gli racconta le storie per telefono, soprattutto di notte, e rimane colpito dalla voce catarrosa dell’interlocutore: «La tua voce era come un rumore di vetri rotti a ogni parola che dicevi, piatti lanciati in terra in mezzo alla cucina». Tabucchi, prima dell’ultimo ricovero, non vuol farsi più vedere, ha paura che l’amico non lo riconosca, perché diventa sempre più piccolo, il suo corpo si restringe. Nonostante il suo divieto, Bajani va a trovarlo in ospedale e il malato, con la mascherina dell’ossigeno e i fili che lo collegano alle macchine, gli chiede di raccontargli un racconto di Cechov, «Il fiammifero svedese», che aveva letto sull’aereo. Due notti prima di morire aveva ancora avuto la forza di dettare a suo figlio l’ultimo racconto, il monologo di una donna che parla a se stessa, guardandosi allo specchio, dentro un salone di bellezza parigino. Nella mente del narratore Tabucchi appare e scompare come un fantasma e questo libro è un modo per elaborare il lutto, che, come dice Bajani alla fine del suo libro, «è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso». A spingerlo a scrivere del suo amico è stata una molla particolare che definisce «la manutenzione della lontananza», cioè il tentativo di tenere in vita il ricordo di una presenza che continuiamo a portarci dentro. E’ uscito nel frattempo un libro postumo di Tabucchi, «approvato e rivisto dall’autore» fino a pochi giorni prima della morte, come rivela la curatrice Anna Dolfi. Ha un titolo bellissimo e molto tabucchiano, «Di tutto resta un poco» (Feltrinelli, pp.300, euro 20,00), tratto da una poesia di Carlos Drummond De Andrade dal titolo «Residui». E’ una raccolta di saggi, articoli e ritratti sulla letteratura, sul cinema e sugli amici. Per questo intellettuale impegnato sul piano sociale e civile la letteratura è «una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia». L’orrore dell’Italia più recente coincide per lui con «il ventennio berlusconiano, mascherato di pinzillacchere televisive, di bandane in ville cafone, di dittatori russi in visita in Sardegna con incrociatori militari, di dittatori libici attendati a Roma con corteo di amazzoni, di partouzes con minorenni». Perché si scrive? «Perché non sono buono a nient’altro», come diceva Beckett, o «perché si ha paura della morte» o «perché si ha paura di vivere» o «perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta? Perché il tempo sta passando troppo in fretta e vorremmo fermarlo? Si scrive per rimpianto, perché avremmo voluto fare una cosa e non l’abbiamo fatta? Si scrive per rimorso, perché non avremmo dovuto fare quella certa cosa e invece l’abbiamo fatta? Si scrive perché si è qui ma si vorrebbe essere là? Si scrive perché si è andati là ma dopotutto era meglio se restavamo qui?». In queste risposte c’è tutta la poetica di Tabucchi. Intanto la malattia del tempo, il Mal del Tempo, di cui soffre Volturno, un personaggio del primo romanzo di Tabucchi, «Piazza d’Italia» (1975), che è simile all’inquietudine di Pessoa, all’ansia di Auden, al «male di vivere» di Montale. E’ il caso, oltre al tempo, l’altro grande tema che percorre tutta la narrativa di Tabucchi. E’ un segno del destino che Tabucchi all’inizio degli anni Sessanta abbia comprato su una bancarella parigina «Bureau de Tabac» di Alvaro de Campos, eteronimo di Pessoa, e che nel 1964-’65 abbia seguito all’università di Pisa un corso di letteratura portoghese tenuto da Luciana Stegagno Picchio ottenendo una borsa di studio in Portogallo, ancora sotto la cappa del regime di Salazar, e abbia conosciuto Maria José de Lancastre, che diventerà sua moglie. E poi c’è la malinconia, la saudade dell’anima portoghese, causata dal ricordo di una felicità che ci è sfuggita, dal dolore provocato dall’assenza di qualcuno o dell’oggetto amato. Nella seconda parte del volume sono raccolti i ritratti degli scrittori da lui prediletti, Schnitzler, Kipling, Céline, Borges, Guimarães Rosa, Rodoreda, Cortázar, Primo Levi, Vila-Matas. A Tabucchi piacciono le storie piene di enigmi e di mistero, gli sguardi sull’altrove, su una realtà parallela alla nostra, i dialoghi tra i vivi e i morti, le crepe impercettibili che si aprono nella crosta del quotidiano. Tabucchi è anche un grande appassionato di cinema. Ricorda «La dolce vita» (1960) di Fellini, grazie al quale aveva scoperto che «l’Italia era un Paese del Basso Impero», i film di Almodóvar, che sono «una navigazione nella clownerie della vita», i polar francesi di Corneau, che è stato il regista del suo «Notturno indiano» (1989), e Marilyn Monroe, un mito, «un’icona di bellezza, una farfalla, un fantasma, un’anima che per gli antichi era un essere alato rappresentato con una farfalla». Massimo Romano
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