I verdetti europei

Ci sono due modi per guardare alle elezioni di domenica scorsa: uno sguardo sull’Europa e i suoi ventotto Paesi dove si votava per il rinnovo del Parlamento comune (anche se solo in diciotto aderiscono alla moneta unica); e uno sull’Italia, dove si andava alle urne anche in più di quattromila Comuni e in due Regioni, Piemonte e Abruzzo.

Il doppio sguardo si converte in due opposti giudizi: in Europa non c’è molto da rallegrarsi per i risultati, in Italia si è calmata almeno una forte inquietudine, quella circa la stabilità di un governo che promette molto e qualcosa finora ha realizzato: se non altro la fiducia nel proprio leader, giovane e senza apparenti complessi di inferiorità verso nessun altro politico, né dentro né fuori del suo partito.

Sia in Europa che in Italia i sondaggi avevano riflesso un’identica preoccupazione: che l’ondata della crisi in atto almeno dal 2008 provocasse un forte aumento elettorale dei partiti anti-unionisti, o quantomeno euroscettici, e quello dell’astensionismo. Quest’ultimo aumento non c’è stato: la media europea dei votanti è rimasta quella di cinque anni fa, il 43 per cento.

Ma tutti i partiti variamente definibili come nazionalisti, populisti, demagogici, al limite razzisti sono cresciuti (meno il M5S in Italia) dove già si sapeva che esistessero, come il Front National in Francia, o in Olanda, o in Austria, e altrove. Ma hanno provocato almeno una sorpresa: il primo posto conquistato in Gran Bretagna, con oltre il 27 per cento, dall’United Kingdom Independence Party, ai danni di quelli tradizionali, conservatori, laburisti, liberali.

In tutto, a Strasburgo siederanno almeno 150 eletti (sui 751 complessivi) dai partiti “euroscettici” o ipernazionalisti, o anti-euro come da noi il M5S e la Lega Nord, o sotto varie sigle in Austria, Finlandia, Svezia, Grecia, Polonia, Bulgaria, più addirittura un neonazista in Germania , e gli indignados in Spagna e così via. Va aggiunto qualche rappresentante di partiti sulla sponda ideologica o programmatica opposta, a sinistra, come il Tsipras greco, con cui si è alleata la nostra L’altra Europa, che ha mandato a Strasburgo tre rappresentanti, fra i quali, in due circoscrizioni, la scrittrice Barbara Spinelli, figlia di uno dei grandi “europeisti” del secolo scorso.

Fra i partiti che hanno conquistato i due primi posti in Europa, sia quello popolare, centrista e democristiano, che quello socialista, hanno perso voti ed eletti, il che renderà ancora più che mai necessaria un’alleanza con i liberaldemocratici e i verdi per conservare una maggioranza intorno al 70 per cento, in grado di assumere decisioni importanti, ma pur sempre, come nelle precedenti sette legislature, sottoposte a divergenze e contrasti difficili da appianare. Già in questi primi giorni postelettorali il Parlamento europeo deve decidere a chi assegnare il ruolo di presidente della Commissione che dovrà succedere al portoghese Barroso in scadenza. Il candidato più forte è il lussemburghese Juncker, del Ppe, ma non è affatto detto che il tedesco Schulz, leader dei socialdemocratici, sia già d’accordo senza condizioni.

E condizioni possibili ce ne sono tante, perché si tratta di stabilire quali sono i problemi più urgenti e generali da affrontare e risolvere, a cominciare dalle divergenze fra le Nazioni del Nord Europa e quelle del Sud, prima fra tutte quella dell’immigrazione, che quasi dappertutto nessuno vuole più lasciar crescere, mentre proprio l’Italia sta gestendo, fra mille difficoltà, indifferenze e incomprensioni transnazionali, la drammatica difesa e accoglienza degli esuli dalla miseria, dalla fame, dalle guerre dell’Africa e del Medio Oriente.

E’ forse proprio un possibile conflitto a livello del Parlamento, del Consiglio dei governi e della Commissione la più grave delle prospettive dell’Unione. L’ex ministro egli Esteri tedesco Joschka Fischer lo attribuisce alla «redistribuzione», cioè alle «eccessive disparità sociali» fra i ventotto Paesi e al conseguente dilemma fra rigore e debito pubblico, ossia fra la Germania e gli altri, con in testa la Francia. «Forse ci sarà meno austerità, ma il prezzo sarà molto alto», ha aggiunto in un’intervista al «Corriere della Sera». «Un effetto molto probabile sarà per esempio quello di aumentare la pressione su Mario Draghi e la Banca centrale europea. Questo significa che l’Eurozona, priva di una direzione politica, è destinata a nuove fasi tempestose». Per questo ha parlato di «un risultato avvelenato» delle elezioni e ha concluso affermando: «E’ un dibattito nel quale la posizione tedesca gioca un ruolo centrale, ma i margini di manovra della cancelliera Merkel non sono diventati più grandi dopo il voto. Anzi».

Resta da vedere quanto e come potrà contare sulla prevedibile crisi politica europea il semestre italiano di guida dell’Ue con inizio il 1° luglio. Matteo Renzi ha commentato: «L’Italia adesso è più forte e a Bruxelles dobbiamo essere protagonisti». Contemporaneamente, il nostro primo ministro dovrà mantenere le promesse fatte agli italiani sulla lotta alla disoccupazione e sulle riforme del lavoro, del Senato, della legge elettorale Italicum, della pubblica amministrazione, della Giustizia, e così via, tenendo conto di come possa restare in piedi un’alleanza composita con i due centro-destra, quello nuovo e quello antico e ora ambiguo, berlusconiano. alleato con la Lega. Ma dovrà badare, ripetiamo, soprattutto  alla questione transnazionale dell’immigrazione, da non lasciare all’operazione «Mare Nostrum» che ci porta in casa tanti disperati e tante proteste (che per adesso non hanno provocato lo sconquasso che si temeva nell’elettorato soprattutto settentrionale).

Beppe Del Colle



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