Terrasanta due trionfi per il Papa

Due grandi risultati dal pellegrinaggio di tre giorni in Terra santa di papa Francesco: l’uno sul versante della pace, l’altro sul versante dell’ecumenismo, i cardini che hanno ispirato tutto il viaggio. Il primo risultato è l’incontro che i presidenti dei due Stati in perenne conflitto, il palestinese Abu Mazen e l’israeliano Shimon Peres andranno in Vaticano:  incontro di preghiera nella «Casa del Papa», casa di preghiera, certo, fuori da ogni vincolo, un terreno sicuro, libero e neutro, affidato allo sguardo di Dio, altro che Camp David. È una road map spirituale, che non ha riscontro con nessun’altra iniziativa. L’invito è stato lanciato da Francesco a Betlemme durante la recita del Regina Coeli a rendere ancora più esplicito che la pace interessa tutti, è un bene supremo che deve essere affidato alla preghiera, a Dio.

Il secondo risultato schiude un orizzonte sconfinato sulla via dell’ecumenismo, la comunione tra i cristiani, a cominciare dalle Chiese sorelle, l’Ortodossa orientale e la Cattolica romana, terra dei patriarchi la prima, approdo, prigionia e martirio di Pietro e di milioni di cristiani la seconda. Ha detto papa Francesco nel discorso pronunciato al Santo Sepolcro, nel corso dell’intensa e commovente celebrazione sulla tomba gloriosa del Risorto, nell’abbraccio ripetuto col patriarca Bartolomeo I: «Desidero rinnovare l’auspicio già espresso dai miei predecessori di mantenere un dialogo con tutti i fratelli in Cristo per trovare una forma di esercizio del ministero proprio del Vescovo di Roma che, in conformità con la sua missione, si apra ad una situazione nuova e possa essere un servizio di amore e di comunione riconosciuto da tutti».

La citazione è tratta dall’enciclica di papa Giovanni Paolo II, Ut unum sint: che siano uno, il comandamento dato da Gesù alla vigilia della sua crocifissione, un’invocazione che nel corso del pellegrinaggio è risuonata nelle occasioni più solenni ed è stata ripetuta da Francesco di Roma e da Bartolomeo di Costantinopoli. Sorgeranno tante opposizioni. Non sarà facile trovare questa «forma di esercizio del ministero proprio del vescovo di Roma». Ma la strada è aperta.

Basta riandare a questi incontri, a questi abbracci, a questo tenersi per mano tra i due leader religiosi, a quei riguardi premurosi di Bartolomeo che aiuta Francesco a salire quei gradini che hanno racchiuso il Corpo di Cristo e hanno segnato la sua Resurrezione, e di Francesco che bacia la mano a Bartolomeo I in segno di rispetto e di affetto, così come fa poi con i sopravissuti della Shoah, l’eccidio di sei milioni di ebrei, un flagello che non abbia più a ripetersi. «Dov’eri, Uomo, quando hai compiuto questi delitti?», recita papa Francesco al Mausoleo. Dio ti ha concesso la libertà, ma non voleva che la usassi così male.

È un film questo dei tre giorni di Francesco in Terra santa a partire dalla pacifica Giordania, ad Amman, nella Casa del re Abdullah II, uomo di pace. Dopo la Giordania, la Palestina, finalmente ammessa all’Onu come Paese osservatore, questo Stato che ha diritto di esistere, ha riaffermato il Papa, con i suoi confini «internazionalmente riconosciuti». Così come lo Stato d’Israele. Lo ripete il Papa. Abbraccia Abu Mazen, il presidente, il successore di Arafat. Lo aveva già ricevuto in Vaticano. Gli aveva donato una penna, dicendogli: «Ha molto da firmare». Quella firma ancora non avviene. Quella penna attende di essere usata.

E poi ci sono i profughi a Betlemme, il borgo di pastori dove nacque Gesù. E lungo la strada, dove non c’è il blocco, la folla è lì ad accoglierlo. Celebra la messa nella piazza della Mangiatoia. Ma per strada Francesco ferma la jeep, quell’auto scoperta, non blindata, che ha voluto per non sottrarsi agli occhi del popolo. Scende e si accosta a quel Muro che impedisce il libero passaggio da una parte all’altra e dove hanno scritto «Free Bethlehem». Non è un gesto simbolico quello che compie Francesco. È un gesto vero, significativo. Si accosta al Muro, lo tocca, prega.

E infine in Israele, passando per Tel Aviv, la capitale, il cuore politico, per incontrarsi con Shimon Peres e il premier Netaniahu, per arrivare a Gerusalemme, la Città santa. Nella Basilica del Santo Sepolcro, alla quale ogni cristiano guarda con profonda venerazione, raggiunge il suo culmine «il pellegrinaggio che sto compiendo insieme con il mio amato fratello in Cristo, sua santità Bartolomeo», ha detto papa Francesco. «Lo compiamo sulle orme dei nostri predecessori, papa Paolo VI e il patriarca Atenagora, i quali diedero luogo cinquant’anni fa, nella Città santa di Gerusalemme, allo storico incontro tra il Vescovo di Roma e il Patriarca di Costantinopoli. È una grazia straordinaria essere qui riuniti in preghiera. La Tomba vuota, dove Giuseppe d’Arimatea aveva deposto il corpo di Gesù, è il luogo da cui parte l’annuncio della Risurrezione: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto”. Questo annuncio è il cuore del messaggio cristiano. È il fondamento della fede che ci unisce».

Mentre vivono «la grazia speciale» del momento, i due leader inseguono un sogno, pur sapendo che le difficoltà sono molte. «Apprendiamo, da questo luogo, a vivere la nostra vita, i travagli delle nostre Chiese e del mondo intero». Ma «non lasciamoci rubare il fondamento della nostra speranza, che è proprio questo: Christòs anesti. Non priviamo il mondo del lieto annuncio della Risurrezione. E non siamo sordi al potente appello all’unità che risuona proprio da questo luogo, nelle parole di Colui che, da Risorto, chiama tutti noi “I miei fratelli”». A questo punto il Papa annuncia l’apertura a studiare una ridefinizione del primato. «Siamo consapevoli che resta da percorrere ancora altra strada per raggiungere quella pienezza di comunione che possa esprimersi anche nella condivisione della stessa Mensa eucaristica, che ardentemente desideriamo; ma le divergenze non devono spaventarci. Dobbiamo credere che, come è stata ribaltata la pietra del sepolcro, così potranno essere rimossi tutti gli ostacoli che ancora impediscono la piena comunione tra noi».

Dai Luoghi santi a tutto il Medio oriente. «Non dimentichiamo tanti altri uomini e donne che soffrono a motivo della guerra, della povertà, della fame; così come i molti cristiani perseguitati per la loro fede nel Signore. Quando cristiani di diverse confessioni si trovano a soffrire insieme e a prestarsi aiuto con carità fraterna si realizza un ecumenismo della sofferenza, che possiede una particolare efficacia per tutta la Chiesa. Quelli che per odio alla fede uccidono non domandano se sono ortodossi o se sono cattolici: sono cristiani. Il sangue cristiano è lo stesso».

Il Pontefice ha ripetuto più volte appelli per la ricerca di «soluzioni» per la guerra nell'«amata» Siria e per il confitto israelo-palestinese: in particolare, in un toccante incontro con centinaia di profughi siriani sulle rive del Giordano ha richiamato al ritorno alla via del negoziato e al soccorso internazionale per la popolazione sofferente. «Dio converta i violenti e coloro che hanno progetti di guerra», ha gridato il Pontefice, che già all'inizio di questo viaggio si è definito «messaggero e testimone di pace».

L’ultimo atto del pellegrinaggio, la messa nella Sala del Cenacolo, celebrata con tutti gli Ordinari di Terra santa ed il seguito papale. Al Cenacolo è nata la Chiesa, una «Chiesa in uscita» che fa memoria di ciò che è accaduto in questo luogo, ha detto il Papa nell’omelia. Il Cenacolo, infatti, ci ricorda il servizio: Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli per dirci di servire il povero, il malato, l’escluso. Il Cenacolo ci ricorda l’eucarestia, il sacrificio: sull’esempio di Gesù che si è offerto per noi al Padre, noi possiamo offrire a Dio la nostra vita, il nostro lavoro, le nostre gioie e i nostri dolori. Il Cenacolo, ha continuato Papa Francesco, ci ricorda l’amicizia: l’esperienza più bella del cristiano e dei sacerdoti è diventare amici del Signore Gesù. Il Cenacolo ci ricorda il congedo e la promessa che Gesù non ci abbandona mai. Il Cenacolo ci ricorda anche la meschinità e il tradimento, ma anche la fraternità e la pace tra noi.

Papa Francesco è di nuovo in Vaticano, in attesa dei due Capi di Stato Mediorientali, mentre laggiù si dedica alla preparazione padre Pizzaballa, il custode di Terra Santa (particolare rivelato dal Papa ai giornalisti durante la conferenza stampa in aereo). Nei prossimi giorni, il 6 o il 7 giugno, celebrerà a Santa Marta una messa presenti un gruppo di otto vittime della pedofilia provenienti da vari Paesi, tra cui Germania, Inghilterra, Irlanda, accompagnate dal card. O'Malley. «La pedofilia», ha detto Bergoglio in aereo, «è un problema grave. Un sacerdote che fa questo tradisce il corpo del Signore, come nelle messe nere». «Oggi ci sono tre vescovi sotto indagine e si sta studiando la pena: si deve andare avanti, tolleranza zero».

I giornalisti hanno poi domandato se altri Papi, e lui stesso, trovandosi nelle stesse condizioni di Benedetto XVI, rinuncerebbero al papato. Risponde Francesco: Ratzinger «ha aperto la porta ai Papi emeriti» e «non sarà l'unico. Un vescovo di Roma che sente le forze venire meno deve farsi le stesse domande di Benedetto XVI. Settant’anni fa i vescovi emeriti non esistevano, oggi sono tanti. Cosa succederà con i Papi emeriti? Lui ha aperto una porta, ed è la porta dei Papi emeriti: cosa succederà non possiamo dirlo, Dio lo sa, ma la porta ora è aperta». Alla domanda dei giornalisti se lui stesso, nel caso dovesse sentire venir meno le forze, farebbe la stessa scelta di Benedetto XVI, Bergoglio ha risposto: «Farò quello che il Signore mi dirà di fare: quindi pregare e cercare la volontà di Dio. Credo che Benedetto XVI non sia un caso unico».

Infine sulla causa di beatificazione di Pio XII (gli Israeliani hanno espresso a Francesco la loro contrarietà) «è aperta, io mi sono informato, ma ancora non c'è nessun miracolo. Se non ci sono miracoli non possiamo», ha concluso.

Antonio Sassone



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