Dio e l'uomo in un tweet

Ha saputo crescere con la pazienza che sa vedere lontano e grazie alla solidità di un’idea accattivante: il Festival biblico, promosso dalla diocesi di Vicenza e dalla Società San Paolo, è ormai giunto alla decima edizione ed è riuscito a conquistare la fiducia di un pubblico eterogeneo, superando nel 2013 le 45 mila presenze.

I passi fatti in un decennio hanno coinvolto non solo una città e la sua provincia, ma si sono estesi anche a Padova, Verona e Rovigo, in un progressivo arricchimento di proposte pensate per avvicinare le persone alla ricchezza e attualità della Bibbia e del suo messaggio, grazie a tavole rotonde e incontri, anche con rappresentanti di altre religioni, intellettuali laici, testimoni di fede, e pure dando spazio a molteplici espressioni artistiche, quali musica, pittura e arti visive, cinema, teatro. Partito il 22 maggio scorso, l’evento si concluderà il 2 giugno (programma completo su www.festivalbiblico.it).

«L’idea nel 2005 ci sembrava un azzardo», hanno affermato i presidenti del festival don Roberto Tommasi e don Ampelio Crema, «ma anche grazie ai diversi linguaggi che convivono nelle numerose iniziative, dalla riflessione teologica, filosofica, sociale ed economica, alle arti, il gioco e l’intrattenimento, oggi possiamo dire che si è riusciti a parlare a tutti». Il tema scelto per quest’anno, «Le Scritture, Dio e l’uomo si raccontano» pone al centro lo straordinario dialogo che attraversa tutta la Bibbia, in cui la parola è divina e umana insieme, capace per questo di parlare agli uomini di ogni tempo.

«L’essere in ricerca avvicina credenti e laici, ovvero coloro che non riescono ancora a dare un nome esplicito al mistero di Dio. È con questo atteggiamento di condivisione che si può percorrere molta strada insieme a chi non crede», ha affermato il monaco camaldolese Franco Mosconi, priore dell’eremo di San Giorgio a Bardolino, intervenuto a Rovigo con Gianni Riotta alla lectio magistralis intitolata «Da Abramo all’uomo contemporaneo». Il dialogo con i testi sacri d’altronde permea tutta la cultura, che il giornalista de «La Stampa» definisce «umana, non strettamente occidentale, dato che per comprendere l’uomo non è possibile prescindere dalla Bibbia. La pittura, la letteratura, cosa sarebbero senza il rapporto che gli artisti hanno intrecciato con le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento? Personalmente, se dovessi scegliere una pagina sola da salvare per i posteri, penso subito alla Genesi, alla creazione dell’uomo, che Dio lascia libero di agire secondo la propria volontà. A questa aggiungerei il sermone delle beatitudini».

«Ciò che rende peculiare la narrazione biblica è il suo rivolgersi in modo dialogico all’altro, muovendosi nella concretezza di ogni singola storia, di ciascuna vicenda umana», ha sottolineato suor Grazia Papola, biblista alla facoltà teologica del Triveneto, intervenuta all’incontro «Il racconto come esperienza del fare memoria: alla scoperta del Deuteronomio». «I grandi protagonisti riflettono il volto di Dio quanto le figure minori. Per questo la Bibbia è un libro per tutti, perché non è composta da formule o astrazioni, bensì si basa sulla sete di relazione, che accumuna ogni persona in ascolto».

Tra le modalità di rapporto con il testo sacro non poteva mancare il mondo della televisione: la testimonianza di mons. Giovanni D’Ercole, da aprile vescovo di Ascoli Piceno e conduttore del programma «Sulla via di Damasco», che ha appena compiuto vent’anni di messa in onda, ha saputo cucire il mezzo al messaggio. «Il nostro obiettivo è di portare il Vangelo vissuto a chi ci segue, dare voce alle esperienze di chi nonostante tutto ha fatto vincere la gioia della fede. Non facciamo prediche, piuttosto raccontiamo come cambia la vita delle persone quando risorgono, quando lasciano agire dentro di sé il cambiamento del cuore».

In un mondo pieno di incertezze viene da chiedersi quanto si riesca ancora a raggiungere un pubblico sempre più sfuggente, soprattutto se si parla di giovani, poco interessati alla tivù. «Non si tratta solo di riformare il linguaggio o di aggiornare i piani pastorali», ha continuato mons. D’Ercole, «e nemmeno di adottare nuove tecnologie. A breve il programma diventerà interattivo grazie all’uso dei social network, però bisogna innanzitutto avere un cuore che vive intensamente la fede per poter comunicare. Tra vent’anni l’Italia sarà un Paese con molte religioni, per cui sarà necessario imparare a convivere, a conoscerci e valorizzare le differenze come racconti della vita».

Lo sguardo al futuro è stato posto anche dal sociologo cattolico Derrick De Kerckhove, il cui compito è stato quello di decifrare i codici di comunicazione che ormai fanno parte della nostra vita, e che stanno modificando la percezione del sé in relazione con il mondo. Il tempo di radicale trasformazione in cui viviamo, paragonabile in parte alla rivoluzione apportata dalla stampa, sta ampliando l’esperienza del quotidiano su un piano finora inesplorato, quello virtuale del web. «Ci confonde la velocità con cui tutto ciò stia accadendo», ha sottolineato il direttore del McLuhan Program in Culture and Technology dell’Università di Toronto, «e temiamo che i big data (il volume di dati prodotti da social media, smartphone, Internet, ma anche dai sistemi di misurazione e monitoraggio, ndr) siano diventati il nuovo grande Inquisitore, per il potere crescente che hanno sulle informazioni che ci riguardano. La nostra presenza in questa dimensione, che è sempre più integrata con la vita di ogni giorno, comporta una trasformazione profonda tanto da poter parlare di inconscio digitale, poiché oggi non siamo solo formati dalle relazioni familiari, come pensava Freud, bensì anche da una società virtuale. Come persone digitali siamo sempre più trasparenti: i nostri gusti non solo sono dati interessanti per il marketing, ma anche danno indicazioni precise alla tecnologia che impieghiamo ogni giorno, che predispone per noi informazioni e suggerimenti adatti alle nostre preferenze».

Il rovesciamento tra pubblico e privato quindi per il sociologo belga-canadese sta già avvenendo da tempo, un cambiamento epocale in cui l’individuo realizza la sua personalità sempre meno nella dimensione privata. «Oggi stiamo andando oltre il punto di vista rinascimentale, secondo cui l’uomo usciva dal mondo per studiarne le leggi. Oggi non abbiamo bisogno di una prospettiva artificiale o di una finzione ottica con cui rappresentare lo spazio, bensì ci occorre essere totalmente inseriti in ciò che ci sta intorno. Dobbiamo quindi cambiare una cultura che spinge all’isolamento, per favorire l’interazione delle conoscenze. Passare perciò da un’intelligenza collettiva, in cui ogni persona si perde, a un’intelligenza connettiva, in cui il pensiero si nutre di condivisione, tra azione consapevole e inconscio. Come accade in un certo senso anche nella Bibbia, tessuto connettivo per eccellenza, in cui uomo e Dio costruiscono un intero mondo narrativo».

Sfide aperte, nelle quali è necessario abbandonare la paura di essere trasformati, quindi, a patto di tenere presente i fondamentali, come ha evidenziato Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, intervenuto sul tema «Se la Bibbia ispirasse l’economia». «Nell’Antico Testamento il denaro e il sangue sono indicati con lo stesso termine, poiché entrambi devono circolare. Si legge pure che il lavoro serve a completare la Creazione: oggi invece la ricchezza si accumula nelle mani di pochi e la disoccupazione aumenta. Non c’è crescita vera senza felicità: lo sviluppo senza le relazioni e la spiritualità è mero Pil. Valorizzare l’uomo nella sua interezza significa dare spazio a tutti, non solo ai più produttivi o ai più dotati».

 Fabiana Bussola



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