Yehoshua chi era costui?

E’ da tutta una vita che lo insegue, lo cerca, lo pedina. E quando crede di averlo raggiunto, si accorge che ancora una volta gli è sfuggito. Ma non si è mai arreso. Si è sempre rimesso con tenacia, determinazione, passione a ricercarlo. Ferruccio Parazzoli, uno dei nostri scrittori più coinvolti nell’indagine su Dio, al quale ha dedicato tanti importanti e coinvolgenti libri. In quest’ultimo «Né potere, né gloria» (Ed. Rizzoli), ancora una volta Gesù è il protagonista, misterioso e inafferrabile.

Nessuna celebrazione, nessuna esaltazione o idealizzazione di un Uomo che ha cambiato il corso della storia dell’umanità. In queste pagine, che suscitano una crescente emozione e sparigliano le carte di una partita che rimane sempre sospesa, il cielo è lontano. Prevale la terra. Con i suoi intrighi, giochi di potere, ipocrisie, viltà, compromissioni, tradimenti. Con una quotidianità che si consuma nella polvere delle strade di Galilea, nel fango che s’impasta con i calzari dei viandanti, nella povertà dei villaggi, nei vicoli sordidi delle città, nei luoghi del potere romano e di quello ebraico.

Lui, Yehoshua, è un’assenza che stenta a diventare presenza. Un latitante che, appena avvistato, è già lontano, un personaggio che sfugge a chi lo cerca. Quel Valerio Massimo, storico della corte di Tiberio, «mantenuto dalla benevolenza dei potenti», autore di un’opera dove ha narrato con successo i vizi e le virtù dei personaggi romani. Dopo essere stato in Asia, accanto al proconsole Sesto Pompeo, disgustato dall’aria che tira a Roma, è rimasto in Oriente per conoscere i costumi e la vita delle genti.

Nei suoi spostamenti é finito in Giudea, dove per caso ha assistito alla prima crocifissione della sua vita. Ne è rimasto turbato per la crudeltà del supplizio, ma anche per l’aspetto dimesso e indifeso di colui che è stato crocefisso, «un ometto piccolo, bruno, di circa quarant’anni, certamente ebreo, il volto coperto di sangue». Qualcosa d’indecifrabile l’ha trattenuto dinanzi a quel povero corpo contratto dal martirio subito. Ha suscitato in lui il desiderio di saperne qualcosa di più. Ma nessuno sa dirgli di preciso chi sia quel crocifisso e per quali colpe è stato condannato ad una morte così atroce. Chi è, quali delitti ha crimini ha compiuto. Pochi l’hanno seguito, mentre andava incontro alla sua morte, soltanto un gruppetto sparuto di donne, e una piccola folla di curiosi che, finito «lo spettacolo», si è eclissata. Un’esecuzione come tante, «uno vale l’altro», gli ha detto il centurione che ha presieduto alla crocefissione e ha premura di andarsene anche lui.

Non per Valerio Massimo, che rimane come inchiodato ai piedi di quella croce. Lo trattiene solo la curiosità dello storico che cerca fatti da raccontare? Anche. Ma c’è dell’altro, «un rosicchio che non so con quale nome chiamare, e che mi era entrato dentro sostando di fronte a quell’ometto appeso». Lo confessa nella lunga epistola a puntate che invia all’amico Sesto Pompeo , nella quale gli racconta la strana avventura che sta cambiando la sua vita. Il fatto misterioso e del tutto imprevedibile è che quel rosicchio diventa, giorno dopo giorno, un’inquietudine permanente che annienta ogni altro pensiero che non sia quello di capire e di sapere perché quello sconosciuto è finito così male .

Una vera ossessione che lo porta a ripercorrere i luoghi dove Yehoshua è passato, per parlare con le persone che ha incontrato, farsi raccontare che cosa ha fatto. Sono i luoghi e i «capitoli», i personaggi che affollano «quel primo grande romanzo popolare che è stato il Vangelo», come l’ha definito Mario Pomilio, e che Ferruccio Parazzoli ripresenta con grande efficacia. Senza mai alzare i toni, con un linguaggio volutamente dimesso che si adegua a una quotidianità dove predomina il grigio della povertà, della fatica che usura, della banalità delle abitudini, dell’indifferenza che nasce dall’impotenza di poter cambiare destini infelici e grami. Gli stessi miracoli che il figlio del falegname di Nazareth avrebbe compiuto, rimangono avvolti dal dubbio o dal timore di parlarne, ora che il loro autore penzola da una croce. La vita di ogni giorno nella sua durezza e nelle sue lotte per la sopravvivenza non ha spazi per questi fatti misteriosi. Vince la «normalità quotidiana con tutta la sua polvere»

Con sorpresa Valerio Massimo scopre nella sua indagine che di Yehoshua non si ricorda più nessuno. A nessuno importa, ebreo o romano che sia. Chi lo ha incontrato sembra avere poca voglia di parlane , i suoi discorsi sono stati spesso fraintesi o poco capiti, le sue «teorie», come dice Zaccheo, si sono dimostrate fallimentari.

Un viandante che lo ha incontrato riferisce: «Lui era innocente, dava via così, regalava le sue parole a tutti senza badare chi gli stava davanti, ricco o miserabile, puro e impuro, saggio o stolto, se in grado di capirlo o no. Lui dava via. L’hanno crocifisso… Non poteva che finire così». Soltanto alcune delle donne che ha beneficiato, in particolare Maria di Magdala, colei che un giorno gli ha lavato i piedi e glieli ha asciugati con i suoi capelli colore del mogano dorato, lo ricordano con tenerezza. E’ stata lei che per prima l’ha visto, quando è risorto, e ora lo aspetta con l’ansia di un’innamorata, sicura che verrà a riprenderla per portarla via con sé. In lei Valerio Massimo avverte un’attesa di qualcosa di grande, d’incomparabile che lo turba. Ma anche lei non riesce a dirgli perché Yehoshua è stato ucciso pur avendo fatto solo del bene.

Lo stesso Ponzio Pilato, annoiato prefetto di una provincia marginale, poco stimato dalla stessa Roma, sa ben poco di quel piccolo ebreo. Lo volevano morto per questioni religiose e lui, per stare tranquillo, l’ha velocemente liquidato. Giuda, che insieme con i dottori della legge lo ha venduto a Pilato, sostiene che è stato sacrificato per sviare l’attenzione dalla rivolta che gli zeloti stanno preparando contro Roma.

Secondo Publio il Centurione, che invita Valerio Massimo a lasciar stare quell’oscura faccenda, a mandare Yehoshua sulla croce sono stati i suoi discorsi a favore dei poveri che prevarranno sui ricchi, l’annuncio di un regno dove sarà fatta giustizia e «le teste di coloro si sono lasciati soffocare dalla ricchezza e dagli illeciti piaceri saranno tagliate e gettate nel fuoco, come si fa con la gramigna». Più che i prodigi e le guarigioni, sono stati queste sue parole rivoluzionarie, contro ogni potere sia religioso sia civile, a perderlo.

Ma tutte queste spiegazioni non riescono a soddisfare la curiosità di Valerio Massimo, che si sente ormai un disperso senza patria e senza casa. Avverte accanto a sé, come compagno di viaggio, speculare alla propria stessa vita, quell’uomo crocifisso. Gli parla di continuo, come «a qualcuno con il quale avessi preso l’impegno di dargli una risposta».

Anche l’ultimo incontro con Myriam, la madre di Yehoshua, pur avvolto nella dolcezza che la donna suscita con i suoi silenzi e quell’unica parola, «io sono la porta», che annuncia un mondo nuovo, non riesce a dargli risposte che appaghino la sua curiosità e attenuino quel rovello che gli mangia l’anima. Il cittadino romano, cresciuto nella razionalità di un impero che ha fatto del potere e della gloria, del successo i valori dominanti, si sente smarrito di fronte ad una vicenda un personaggio che si è mosso in direzione opposta.

Delusione dopo delusione, Valerio Massimo inizia a pensare di avere perso il suo tempo. Il sogno e il fallimento di quel piccolo ebreo non ha nessuna importanza pubblica, né storica. Tuttavia non può nascondersi che ha finito per amarlo, «quel piccolo Yehoshua che ha gettato via la sua vita per tutti coloro che lo hanno già dimenticato».

Mariapia Bonanate

 

 

 

E’ da tutta una vita che lo insegue, lo cerca, lo pedina. E quando crede di averlo raggiunto, si accorge che ancora una volta gli è sfuggito. Ma non si è mai arreso. Si è sempre rimesso con tenacia, determinazione, passione a ricercarlo. Ferruccio Parazzoli, uno dei nostri scrittori più coinvolti nell’indagine su Dio, al quale ha dedicato tanti importanti e coinvolgenti libri. In quest’ultimo «Né potere, né gloria» (Ed. Rizzoli), ancora una volta Gesù è il protagonista, misterioso e inafferrabile. Nessuna celebrazione, nessuna esaltazione o idealizzazione di un Uomo che ha cambiato il corso della storia dell’umanità. In queste pagine, che suscitano una crescente emozione e sparigliano le carte di una partita che rimane sempre sospesa, il cielo è lontano. Prevale la terra. Con i suoi intrighi, giochi di potere, ipocrisie, viltà, compromissioni, tradimenti. Con una quotidianità che si consuma nella polvere delle strade di Galilea, nel fango che s’impasta con i calzari dei viandanti, nella povertà dei villaggi, nei vicoli sordidi delle città, nei luoghi del potere romano e di quello ebraico.

Lui, Yehoshua, è un’assenza che stenta a diventare presenza. Un latitante che, appena avvistato, è già lontano, un personaggio che sfugge a chi lo cerca. Quel Valerio Massimo, storico della corte di Tiberio, «mantenuto dalla benevolenza dei potenti», autore di un’opera dove ha narrato con successo i vizi e le virtù dei personaggi romani. Dopo essere stato in Asia, accanto al proconsole Sesto Pompeo, disgustato dall’aria che tira a Roma, è rimasto in Oriente per conoscere i costumi e la vita delle genti.

Nei suoi spostamenti é finito in Giudea, dove per caso ha assistito alla prima crocifissione della sua vita. Ne è rimasto turbato per la crudeltà del supplizio, ma anche per l’aspetto dimesso e indifeso di colui che è stato crocefisso, «un ometto piccolo, bruno, di circa quarant’anni, certamente ebreo, il volto coperto di sangue». Qualcosa d’indecifrabile l’ha trattenuto dinanzi a quel povero corpo contratto dal martirio subito. Ha suscitato in lui il desiderio di saperne qualcosa di più. Ma nessuno sa dirgli di preciso chi sia quel crocifisso e per quali colpe è stato condannato ad una morte così atroce. Chi è, quali delitti ha crimini ha compiuto. Pochi l’hanno seguito, mentre andava incontro alla sua morte, soltanto un gruppetto sparuto di donne, e una piccola folla di curiosi che, finito «lo spettacolo», si è eclissata. Un’esecuzione come tante, «uno vale l’altro», gli ha detto il centurione che ha presieduto alla crocefissione e ha premura di andarsene anche lui.

Non per Valerio Massimo, che rimane come inchiodato ai piedi di quella croce. Lo trattiene solo la curiosità dello storico che cerca fatti da raccontare? Anche. Ma c’è dell’altro, «un rosicchio che non so con quale nome chiamare, e che mi era entrato dentro sostando di fronte a quell’ometto appeso». Lo confessa nella lunga epistola a puntate che invia all’amico Sesto Pompeo , nella quale gli racconta la strana avventura che sta cambiando la sua vita. Il fatto misterioso e del tutto imprevedibile è che quel rosicchio diventa, giorno dopo giorno, un’inquietudine permanente che annienta ogni altro pensiero che non sia quello di capire e di sapere perché quello sconosciuto è finito così male .

Una vera ossessione che lo porta a ripercorrere i luoghi dove Yehoshua è passato, per parlare con le persone che ha incontrato, farsi raccontare che cosa ha fatto. Sono i luoghi e i «capitoli», i personaggi che affollano «quel primo grande romanzo popolare che è stato il Vangelo», come l’ha definito Mario Pomilio, e che Ferruccio Parazzoli ripresenta con grande efficacia. Senza mai alzare i toni, con un linguaggio volutamente dimesso che si adegua a una quotidianità dove predomina il grigio della povertà, della fatica che usura, della banalità delle abitudini, dell’indifferenza che nasce dall’impotenza di poter cambiare destini infelici e grami. Gli stessi miracoli che il figlio del falegname di Nazareth avrebbe compiuto, rimangono avvolti dal dubbio o dal timore di parlarne, ora che il loro autore penzola da una croce. La vita di ogni giorno nella sua durezza e nelle sue lotte per la sopravvivenza non ha spazi per questi fatti misteriosi. Vince la «normalità quotidiana con tutta la sua polvere»

Con sorpresa Valerio Massimo scopre nella sua indagine che di Yehoshua non si ricorda più nessuno. A nessuno importa, ebreo o romano che sia. Chi lo ha incontrato sembra avere poca voglia di parlane , i suoi discorsi sono stati spesso fraintesi o poco capiti, le sue «teorie», come dice Zaccheo, si sono dimostrate fallimentari.

Un viandante che lo ha incontrato riferisce: «Lui era innocente, dava via così, regalava le sue parole a tutti senza badare chi gli stava davanti, ricco o miserabile, puro e impuro, saggio o stolto, se in grado di capirlo o no. Lui dava via. L’hanno crocifisso… Non poteva che finire così». Soltanto alcune delle donne che ha beneficiato, in particolare Maria di Magdala, colei che un giorno gli ha lavato i piedi e glieli ha asciugati con i suoi capelli colore del mogano dorato, lo ricordano con tenerezza. E’ stata lei che per prima l’ha visto, quando è risorto, e ora lo aspetta con l’ansia di un’innamorata, sicura che verrà a riprenderla per portarla via con sé. In lei Valerio Massimo avverte un’attesa di qualcosa di grande, d’incomparabile che lo turba. Ma anche lei non riesce a dirgli perché Yehoshua è stato ucciso pur avendo fatto solo del bene.

Lo stesso Ponzio Pilato, annoiato prefetto di una provincia marginale, poco stimato dalla stessa Roma, sa ben poco di quel piccolo ebreo. Lo volevano morto per questioni religiose e lui, per stare tranquillo, l’ha velocemente liquidato. Giuda, che insieme con i dottori della legge lo ha venduto a Pilato, sostiene che è stato sacrificato per sviare l’attenzione dalla rivolta che gli zeloti stanno preparando contro Roma.

Secondo Publio il Centurione, che invita Valerio Massimo a lasciar stare quell’oscura faccenda, a mandare Yehoshua sulla croce sono stati i suoi discorsi a favore dei poveri che prevarranno sui ricchi, l’annuncio di un regno dove sarà fatta giustizia e «le teste di coloro si sono lasciati soffocare dalla ricchezza e dagli illeciti piaceri saranno tagliate e gettate nel fuoco, come si fa con la gramigna». Più che i prodigi e le guarigioni, sono stati queste sue parole rivoluzionarie, contro ogni potere sia religioso sia civile, a perderlo.

Ma tutte queste spiegazioni non riescono a soddisfare la curiosità di Valerio Massimo, che si sente ormai un disperso senza patria e senza casa. Avverte accanto a sé, come compagno di viaggio, speculare alla propria stessa vita, quell’uomo crocifisso. Gli parla di continuo, come «a qualcuno con il quale avessi preso l’impegno di dargli una risposta».

Anche l’ultimo incontro con Myriam, la madre di Yehoshua, pur avvolto nella dolcezza che la donna suscita con i suoi silenzi e quell’unica parola, «io sono la porta», che annuncia un mondo nuovo, non riesce a dargli risposte che appaghino la sua curiosità e attenuino quel rovello che gli mangia l’anima. Il cittadino romano, cresciuto nella razionalità di un impero che ha fatto del potere e della gloria, del successo i valori dominanti, si sente smarrito di fronte ad una vicenda un personaggio che si è mosso in direzione opposta.

Delusione dopo delusione, Valerio Massimo inizia a pensare di avere perso il suo tempo. Il sogno e il fallimento di quel piccolo ebreo non ha nessuna importanza pubblica, né storica. Tuttavia non può nascondersi che ha finito per amarlo, «quel piccolo Yehoshua che ha gettato via la sua vita per tutti coloro che lo hanno già dimenticato».

Mariapia Bonanate



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