![]() Accesso utente |
L'esempio ci arriva da GesùSe dal Salone del libro di Torino, che ha avuto come ospite d’onore la Santa Sede, uscisse la consapevolezza che è giunto il momento di sdoganare la contrapposizione laici e credenti, sarebbe un bel successo. Se si pendesse atto che siamo tutti “laici” nel significato etimologico della parola greca, “uno del popolo”, e che Cristo stesso lo era, tante barriere che hanno reso difficile il dialogo fra “chi crede e chi non crede” cadrebbero. E inizierebbe una stagione nuova d’incontri, fra persone con diversi percorsi e collocazioni storiche che pensano e s’interrogano insieme su problemi comuni, alla quale la presenza del Vaticano al Lingotto ha dato un apporto importante. E’ stata la riflessione con la quale Claudio Magris ha introdotto la sua conversazione con il cardinale Gianfranco Ravasi sulla «Comunicazione nella Chiesa», una delle più attese e affollate della grande kermesse svoltasi a Torino. «Contrapporre laico a credente è scorretto e sbagliato, si tratta semplicemente di modi diversi di pensare», ha detto lo scrittore triestino, che ama definirsi «un laico non praticante». E con questo spirito ha svolto il suo intervento. Come già aveva avuto modo di dire in altre occasioni, la Chiesa, quando scende dalle alte vette del dibattito teologico alla divulgazione della propria dottrina per un pubblico medio, «perde la capacità di sintesi, è meno efficace». E’ rimasta ferma a delle enunciazioni ossidate che non riescono a incidere e a scuotere la vita quotidiana delle persone. Come accade ad esempio per quel «peccato originale» che non rappresenta solo una tendenza a delinquere. «Quando ciascuno di noi nasce non può tirarsi fuori da una certa colpevolezza legata alla catena di azioni che lo hanno preceduto». Così la Chiesa troppo poco fa conoscere la gravità dei peccati di omissione, «una delle colpe più vili di cui tutti siamo colpevoli». E poco illustra quel significato profondo del mistero che non deve essere vissuto come un incubo, ma un’esigenza di chiarezza, di capire razionalmente quanto è importante interrogarsi sull’esistenza di un Dio. «Su questo versante fede e ragione debbono collaborare nella consapevolezza che credere è non sapere, è fidarsi. Si tratta di un’esperienza interiore e umana che chiede abbandono. E’scommettere su quanto non appartiene alla ragione». Al proposito Magris ha ricordato quanto scrisse Chesterton: «Quando la gente smette di credere in Dio non inizia a non credere più in niente, ma finisce con il credere in tutto». La confessione. Non può essere presentata soltanto come assoluzione di un elenco di peccati che «provoca un certo lassismo e aiuta a liberarsi dai sensi di colpa, ma deve indurre ad un decisivo cambiamento della propria vita che sradica il peccato». Sono alcuni esempi di una comunicazione mancata che impediscono di giungere alla vera essenza della fede cattolica, ne trasmettono un’immagine sbagliata o pesantemente limitata. A proposito del male, che si contrappone al «bene in vista», tema conduttore del Salone, Magris ha ricordato quanto è accaduto a Trieste, dove un vigile urbano che si autoproclama capo dei satanisti giuliani è finito sulle pagine dei giornali locali con dichiarazioni a favore del libero pensiero e di presunte trasgressioni. «Ma siamo seri, per cortesia: se uno vuol difendere il male deve schierarsi dalla parte del male vero. Deve ad esempio proclamarsi a favore del traffico d’organi, non trovi scusi per andare a ballare». Il cardinale Gianfranco Ravasi, raccogliendo le provocazioni e le inquietudini dello studioso triestino, ha confermato che il dramma del nostro tempo, e di tanti cristiani, è di non volersi più interrogare. E ha ricordato quanto diceva lo scrittore Cormac McCarthy: «Chi s’interroga vuole la verità, ma chi dubita o è indifferente vuol sentirsi dire che la verità non esiste». «Quando si vuole entrare nel cuore autentico di una religione è fondamentale interrogarsi. La religione non é solo consolatoria, vuole disturbare. “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, ripeteva sant’Agostino. Un giorno ho incontrato il grande scrittore Julien Green e gli ho chiesto quale era il nodo d’oro attorno al quale si era mosso il suo cristianesimo. Mi ha risposto: “Finché si è inquieti, si può stare tranquilli”. Proprio per questo l’incontro per il cristiano è con Gesù, ma anche con l’altro, con la sua vita e il suo pensiero». «Ma la fede non è solo interrogazione sui temi ultimi, è anche un cuore pulsante che cerca di ascoltare l’altro, un esercizio più arduo dello stesso parlare», ha detto il presidente del Pontificio consiglio per la cultura in un suggestivo intervento, ricco di riferimenti letterari. «Come ci ricordano i bellissimi versi di una poesia di Nelly Sachs, “se i profeti irrompessero per le porte della notte e cercassero un orecchio come patria, orecchio degli uomini, ostruito d’ortica, sapresti ascoltare?” Il cristiano per sua natura non è integralista, è in continuo dialogo e ascolto di culture diverse. La sua fede si affloscia se non è continuamente attraversata da domande». E per quanto riguarda la comunicazione: «Le religioni che scuotono hanno dentro la Parola, hanno al loro centro “il roveto ardente”. La figura di Cristo invece troppo spesso è demolita da predicatori che non sanno presentare la figura di Cristo nella sua vera anima provocatrice, che scandalizza, che artiglia le coscienze. La parola di Cristo non può essere incatenata. Borges, con il quale papa Francesco ha trascorso intense giornate, ha scritto: “Il volto di Cristo che io cerco non è quello dei pittori, io questo volto non lo vedo, vedo un volto duro, ebreo, che insisterò a cercare fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra». Alla domanda del direttore de «La Stampa» Mario Calabresi, che moderava l’incontro, se in questi ultimi anni la comunicazione della Chiesa non è cambiata, Claudio Magris ha ammesso che «il tono del dibattito è migliorato. Papa Francesco ha inaugurato una narrazione che non proclama, ma si cala nella vita di ogni uomo con un linguaggio che arriva a tutti. C’è in lui la straordinaria capacità di entrare nel cuore delle cose, spuntando agli avversari le loro armi, sdrammatizzando e togliendo la voglia di polemizzare». Papa Francesco, anche per il card. Ravasi, ha inaugurato una comunicazione più immediata, fuori da schemi precostituiti, dando più spazio ai gesti che alle parole. «Lo dimostra l’udienza generale del mercoledì, alla quale ho la gioia di assistere dalle finestre del mio studio. Il Papa, nella sempre gremitissima piazza san Pietro, dedica venti minuti alla catechesi e poi per un’ora cammina fra la gente, cercando un contatto con le persone. Da questo rapporto fisico diretto nasce una parola generativa che rimane con simboli e immagini nelle menti e nel cuore di tutti. Pensiamo “alle periferie esistenziali“, “alla Chiesa ospedale da campo”, ai “veri pastori che hanno odore di pecore“ a “noi preti che non dobbiamo essere untuosi, sontuosi e presuntuosi, ma servitori gli uni degli altri“. L’esempio ci arriva da Gesù. Il 47 per cento del suo ministero pubblico era fatto di miracoli, durante i quali toccava la gente, partiva dalla terra che calpestava, dal paesaggio, dalle persone e dalle loro situazioni di vita. Di lì nascevano le sue parabole e i suoi messaggi che avvolgevano e coinvolgevano, travolgevano le persone». Mariapia Bonanate
|