Molti visitatori, pochi lettori

Ennesimo aumento dei visitatori e incremento delle copie di volumi venduti. Questo, in estrema sintesi, il bilancio della 27ª edizione del Salone del libro di Torino. E’ il fenomeno dell’evento, il fascino della kermesse che attrae le folle, alla ricerca di un contatto, visivo, verbale e fisico, con i personaggi noti, quelli dello spettacolo e della televisione. Poterli vedere, ascoltare, sfiorare e magari ottenere un autografo è il sogno di ogni visitatore, mentre leggere un libro è tutta un’altra storia.

Lo conferma un’indagine Ocse sul tasso di lettura in Italia, dove, dal 2011 al 2013, si sono persi un milione e novecentomila lettori, una cifra mostruosa, pari a quella di un’intera metropoli, per un Paese che legge poco. Una perdita non compensata dagli e-book, che non vanno molto oltre il 2 per cento rispetto al cartaceo e costano piuttosto cari (da 3 a 12 euro, contro i 20 centesimi degli Stati Uniti).

A inaugurare la manifestazione del Lingotto il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che ha lanciato un atto d’accusa contro la televisione, colpevole di aver ucciso il libro. Questa, però, è una polemica vecchia, che dura da almeno trent’anni e risponde solo in parte alla realtà, perché i responsabili della non lettura sono altri, a partire dalle istituzioni per finire con la famiglia e la scuola, dove leggere è più un dovere che un piacere. Se nelle case degli italiani non ci sono libri, come può il ministro Franceschini accusare le fiction per l’assenza di libri, di stanze con scaffali e biblioteche e di personaggi con un volume in mano? Sarebbe pura fantascienza, non realtà quotidiana.

Il titolo della manifestazione di quest’anno, «Bene in vista», con l’immagine di un bambino che guarda lontano con un binocolo di carta, allude a una speranza, a un segno positivo contro il degrado spirituale e morale in cui siamo immersi. «Il bene, che richiede la sapienza del cuore, non la speculazione intellettuale, è tutto ciò che fa sbocciare la vita», ha detto Susanna Tamaro, madrina del Salone, vent’anni dopo il suo fortunato bestseller «Va dove ti porta il cuore». «Fare il bene conviene», ha osservato l’etologo olandese De Waal, sottolineando il valore della pietas, che nasce dallo stare insieme, dal confrontarsi.

I filosofi, sin dall’antichità, si sono interrogati sul bene e sul male. L’Agathon di Platone, il Bene, corrisponde per Massimo Cacciari a quell’”aperto” che sta al di fuori del dedalo in cui siamo intrappolati. Una folla da stadio, con un centinaio di persone rimaste fuori dalla sala, ha accolto il filosofo veneziano che presentava il suo nuovo libro «Labirinto filosofico» (Adelphi), un saggio di impervia lettura, comprensibile soltanto per gli addetti ai lavori. Nulla di strano, però, anche qui tutto secondo copione. E’ la legge della televisione, che ha reso popolare Cacciari come ospite frequente di Lilli Gruber a «Otto e mezzo». La platea si è sciroppata in religioso silenzio il suo discorso difficile, sperando forse in qualche allusione a Renzi o a Berlusconi. E invece è rimasta a bocca asciutta.

Oltre alla celebrazione dei soliti anniversari, dal centenario di Berto e della Yourcenar al cinquantenario di Adelphi ai dieci anni dalla morte del poeta Raboni, valeva la pena assistere all’incontro «Roberto Cerati o della cura dei libri» per ricordare un uomo mite e silenzioso, scomparso pochi mesi fa a novant’anni, sempre al servizio degli altri in nome della cultura. Strillone del «Politecnico» di Vittorini per le strade di Milano nel 1945, poi venditore di libri Einaudi in giro per l’Italia, infine direttore commerciale e presidente della casa editrice torinese, è stato un asceta laico che, prima di papa Francesco, apprezzava la povertà e la semplicità come valori spirituali. Sicuramente avrebbe condiviso una frase pronunciata da Bergoglio pochi giorni fa: «E’ più bella una sconfitta pulita che una vittoria sporca». Una frase da girare come monito a tutti gli sportivi e i politici in circolazione.

Cerati aveva avuto un grande maestro, il libraio milanese Cesarino Branduani della Hoepli, che usava due frasi fulminee per distinguere la tipologia dei libri: «Al va» per indicare il libro che si vendeva bene e «L’è bûn», riferito al libro di qualità che non si vende subito ma dura nel tempo. Oggi gli editori, tutti impegnati nella caccia al bestseller, inseguono gli «al va» senza preoccuparsi troppo dei «l’è bûn». Il risultato è un abbassamento vertiginoso della qualità della lettura, che provoca il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, come ha rilevato il direttore del Salone Ernesto Ferrero. Se in classifica svettano i non libri di Fabio Volo o le «Cinquanta sfumature», vuol dire che il nostro livello culturale medio è bassissimo.

Per cambiare rotta, bisogna ripartire dal coinvolgimento delle famiglie sulla lettura in età prescolare, dal rilancio delle biblioteche che languono, private dei già pochi fondi finanziari che avevano, dalla formazione di insegnanti selezionati in grado di trasmettere la passione per la lettura agli studenti, rendendoli partecipi di un tesoro necessario per vivere in modo più consapevole. Soltanto così, e in tempi lunghi, non immediati, si possono creare nuovi lettori e innalzare il livello culturale di un’Italia alla deriva.

Anche i piccoli editori stanno male. E per dar loro visibilità nel padiglione 1 è stato creato il programma curato da Giuseppe Culicchia «Officina. Editoria di progetto». L’intento di privilegiare il catalogo sulle novità e sul volume usa e getta potrebbe aiutare innanzitutto i librai, costretti a chiudere le loro botteghe per gli affitti e i costi di magazzino sempre più alti e per la concorrenza dei grandi marchi.

Infine, è annunciato per l’anno prossimo il gemellaggio con la Buchmesse di Francoforte, con la Germania ospite d’onore al Salone del 2015. Sarebbe opportuno in quell’occasione annullare o almeno ridurre due difetti fastidiosi per i visitatori: il frastuono che impedisce di ascoltare i convegni e l’eccesso di lectio magistralis, che ormai non si rifiuta a nessuno e poco si concilia con l’understatement subalpino.

Massimo Romano



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