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In tanti a testimoniare "l'eroismo quotidiano"Il vecchio Palasport di Genova domenica scorsa straripava di famiglie. Una tipologia di pubblico fuori dagli schemi, passeggini e ragazzini e madri e padri a riempire le gradinate e fare un tifo speciale. Convocati non da un allenatore, ma da un arcivescovo che da tempo, come presidente della Cei, ha per la famiglia un’attenzione speciale: per quella, e per il matrimonio, hanno fatto il tifo, letteralmente, almeno cinque-seimila persone. Ed stata chiamata proprio così: «Convocazione», diocesana, delle Famiglie. Tutti insieme, quasi nel bel mezzo del decennio dell’Educazione, e dopo un anno di lavoro e riflessione nelle parrocchie e nei movimenti su schede preparate dalla diocesi, concentrandosi sulla famiglia educante nei confronti di bambini bisognosi di riferimento e cura, ma anche sugli sposi e sulle loro fatiche, sui giovani e la tentazione diffusa a non impegnarsi in un rapporto stabile. Eppure: «Se esistono persone capaci di volersi bene dopo 55 anni (i miei nonni) vuol dire che il matrimonio ha ancora un senso», dice Gioele chiamato a testimoniare, come aggrappandosi a un’evidenza che scaccia le sue stesse paure. Così per molte delle testimonianze registrate o raccontate dal palco, niente di edulcorato o «selezionate col finale cattolicamente corretto» come racconta la stampa laica l’indomani. Generosi nel mettere a disposizione esperienze non sempre facili, molte coppie di sposi certamente spiazzano e stupiscono, ma non più di tanto: come Miriam e Stefano, che raccontano della figlia disabile, non un caso, ma un dono che ha reso migliore la loro vita, e l’applauso dei cinquemila e più alla mamma che racconta di un’amniocentesi rifiutata suona come calorosa vicinanza e approvazione al suo coraggio; o Giulia e Simone, che si sentivano forti del loro sentimento finchè «un trascurare, un pensare che il matrimonio andasse da sé, un dare per scontato…» interrompevano comunicazione, dialogo, e apparentemente anche l’amore, con il tradimento: poi, la voglia di risalire, di dare il difficile perdono e il bisogno di riceverlo; e adesso la cura, tramite un’associazione, per chi sta vivendo la stessa situazione. O due ragazzi “normali” come Lilly e Luca, un matrimonio deciso dopo le parole del «Papa santo della famiglia» a Torvergata nel 2000, tre bimbe, il lavoro di lei lasciato, e la via semplice della sobrietà imboccata serenamente. O le tre coppie di sposi che si sono messe insieme per accoglierne altre, e bambini in affido e ragazze madri e famiglie di passaggio, magari per un ricovero all’ospedale: un’opportunità per allargare il proprio grembo, la definisce l’arcivescovo, che si dichiara disponibile ad appoggiare concretamente altri sposi disposti a fare altrettanto. «Amore è fecondità, altrimenti non è», commenta Bagnasco, «e amore è apertura, altrimenti non è», dice incoraggiando l’accoglienza di nuove vite nel grembo fecondo della coppia, intesa come fecondità dell’amore anche per chi non ha una famiglia propria. Ed è quella la strada certo dolorosa per le coppie che non riescono ad avere un figlio proprio: «Un figlio che è da chiedere in ginocchio come un dono di Dio», suggerisce l’arcivescovo genovese, perché un figlio non è un diritto come se fosse una cosa. Ma questo, le famiglie lo sanno. Le famiglie che vengono definite da Bagnasco «pilastro del vivere insieme, cui nessun’altra realtà può sostituirsi», realtà umana che tocca l’esperienza universale: niente a che fare, dice il cardinale, con «altre situazioni verso le quali c’è rispetto, ma che non possono sostituirsi a questo bene assoluto». La famiglia e il suo «eroismo quotidiano», che non è «cattolicamente corretto» come si dirà poi, perché se sul palco gli sposi si raccontavano, giù in platea la gente con i passeggini si ritrovavano in parole e fatiche che sono di tutti. È la famiglia «a cui vogliamo rendere onore», ha detto commosso l’arcivescovo, fondata sul matrimonio «roccia dell’amore totale e quindi irrevocabile tra uomo e donna». Ha bisogno della stabilità della famiglia, la società, e hanno bisogno della certezza dell’amore dei genitori, i figli. Un amore che educa, ed è un diritto, ed è un dovere. E a questo proposito: «Nessuna autorità può sottrarre ai genitori il diritto-dovere di educare i figli», ha esclamato Angelo Bagnasco. «La scuola non è un campo di rieducazione», dice con un’espressione già usata stigmatizzando come presidente della Cei abusi e interferenze “educative” in ambito scolastico. «I genitori non devono essere soltanto informati», afferma parlando dei programmi scolastici, perché ai genitori si deve di più: «Si deve chiedere la loro esplicita autorizzazione». Lo dice durante l’omelia nella messa conclusiva, ma le famiglie del palasport non si trattengono, e durante la funzione fanno una cosa cattolicamente non corretta: applaudono fragorosamente. Daniela Ghia
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