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La Polonia che scoprii con WojtylaConobbi il futuro papa Giovanni Paolo II nel 1972. Due anni prima ero venuto in Polonia come inviato di «Famiglia Cristiana» per intervistare Frantisek Gajowniczek, il padre di famiglia condannato a morire di fame in un bunker di Auschwitz e scampato in extremis grazie a padre Massimiliano Kolbe (ora santo) che si sostituì a lui salvandogli la vita. Poiché per quel servizio ero stato accompagnato al campo di sterminio nazista da alcuni frati francescani, questi mi chiesero se conoscevo il latino, e io risposi di sì poiché quando studiavo dai Salesiani avevamo un testo di filosofia in latino e nelle interrogazioni rispondevamo in questa lingua. Mi spiegarono il perché di quella domanda, dicendomi che un loro confratello da me conosciuto a Roma, che sarebbe poi diventato Vicario generale dei Frati minori conventuali e successivamente vescovo di Szczecin (Stettino), padre Biagio Kruszyłowicz, aveva suggerito ai frati che mi accompagnavano ad Auschwitz di parlare tra di loro e con me in latino, perché la polizia comunista seguiva gli inviati della stampa straniera da vicino per ascoltare le loro conversazioni. Questo mi facilitò la raccolta delle notizie che mi interessavano, lasciando di stucco i due poliziotti che mi avevano seguito senza capire un’acca dei nostri discorsi, e così fui mandato in Polonia molte volte, facendo del nostro settimanale l’organo che svelava le malefatte del regime comunista in quel Paese cattolico. Ebbi così modo di conoscere personalmente anche il cardinale Wojtyła, il quale vedeva di buon occhio i nostri réportages sul suo Paese. Ad esempio, quando in seguito a una rivolta popolare a Radom venne incendiata la casa del partito, con due frati francescani mi recai sul posto e, coperto da un mantello degli stessi frati, riuscii a fare delle foto a pochi metri dal palazzo. Seguii anche la lotta condotta dall’arcivescovo di Cracovia per costruire la chiesa di Nowa Huta, un sobborgo di Cracovia che era diventato il maggiore centro dell’industria metallurgica. Il governo aveva respinto sistematicamente le richieste per la sua costruzione, ma il cardinale celebrò ugualmente la messa della veglia di Natale del 1963 all’aperto, sotto la pioggia, sul luogo scelto per la chiesa che egli definì «nuova grotta di Betlemme». Le autorità comuniste col tempo finirono per cedere e il 18 maggio 1969 cominciarono i lavori di costruzione: Paolo VI aveva mandato da Roma una pietra della Basilica di San Pietro perché fosse la “prima” del nuovo edificio che venne consacrato solennemente nel maggio 1977. L’arcivescovo nell’omelia in quell’occasione disse tra l’altro, riferendosi al regime dominante nel Paese: «Questa non è una città di persone che non appartengono a nessuno, persone con cui potete fare quello che vi piace; che possono essere manipolate secondo le leggi della produzione e del consumo. Questa città è una città di figli di Dio». Capitò qualche volta che la polizia vietasse la processione del Corpus Domini, ma Wojtyła la faceva ugualmente, seguito da centinaia di fedeli: al passaggio del baldacchino, anche alcuni poliziotti finivano per inginocchiarsi, avendo capito chi era il più forte. Nel giugno 1978, in occasione del pellegrinaggio nazionale dei minatori polacchi a Piekary Slaskie, circa centomila minatori gridavano: «Viva il cardinale, viva i nostri vescovi!». E nell’omelia l’arcivescovo di Cracovia si scagliò duramente contro le cerimonie atee che il governo voleva organizzare; rivendicò il riposo della domenica per i minatori, costretti a lavorare nel giorno festivo, e sottolineò la sproporzione tra la massa di pubblicazioni marxiste e l’unico periodico di ispirazione cattolica autorizzato. Come si vede, il coraggio non gli mancava, e la gran parte della popolazione della sua diocesi era solidale con lui. La sera del 16 ottobre 1978, in cui Karol Wojtyła venne eletto papa, verso le 20 dall’ambasciata polacca a Roma mi telefonò un funzionario di cui ero diventato amico (tra l’altro era un buon cattolico, sebbene fosse un funzionario del regime). Mi disse di venire il giorno dopo a ritirare il visto per la Polonia. Quando ci vedemmo in ambasciata, mi chiamò in un angolo dell’ufficio e mi disse sottovoce: «Montonati, resti fra noi, non mi citi, ma con questo qui per noi è finita». In Polonia aveva già capito che con Giovanni Paolo II la storia avrebbe subito una svolta epocale. Karol Wojtyła da cardinale venne nella sede milanese di «Famiglia Cristiana» per tenere una conferenza sulla famiglia e fu intervistato da una collega. Io lo rividi a Roma il 26 settembre 1978, tre giorni prima che morisse papa Luciani. Mi aveva invitato a pranzo dicendo che aveva un servizio interessante da farmi fare. Ci andai e mi mostrò un articolo, tradotto in italiano, che egli aveva scritto per il suo settimanale diocesano, «Tygodnik Powszechny». Poiché avevo notato che alcune frasi del testo risultavano cancellate, egli mi spiegò che in Polonia era la censura di Stato ad autorizzare la pubblicazione di un articolo, eliminando quello che non piaceva al governo: altro che libertà di stampa! E qui ecco l’aneddoto curioso: a pranzo come antipasto ci portarono del prosciutto polacco affumicato (tipo Praga), che però, non essendo fresco, aveva uno strano sapore e io non lo mangiai. «Capisco», commentò scherzando il cardinale, «voi italiani avete il San Daniele o il crudo di Parma e questo non vi piace!». Morto Albino Luciani, egli fu eletto papa il 16 ottobre e il 25 gennaio 1979 fece il suo primo viaggio fuori d’Italia, andando in Messico per la conferenza del Celam che si teneva a Puebla. Sull’aereo egli volle salutare i giornalisti e quando gli presentarono l’inviato di «Famiglia Cristiana», egli sorridendo rispose: «Questo lo conosco, non gli piace il prosciutto polacco!». Poi mi prese da parte e mi diede un rosario per mia moglie, benedicendolo. Quando, nel 1980, decisi di tornare a Milano per stare vicino a mia madre seriamente inferma, appena seppe che lasciavo Roma mi fece chiamare e, dopo l’udienza generale, mi chiese il motivo della mia partenza. Glielo spiegai ed egli disse che avrebbe pregato per me e per mia madre, Poi, augurandomi buon lavoro, aggiunse: «E non dimentichi la Polonia!». Lo rividi poi il 3 novembre 1985 in occasione della beatificazione di Tito Brandsma, il carmelitano olandese rettore dell’Università cattolica di Nimega e giornalista, ucciso a Dachau dai nazisti nel 1942. Insieme a un collega olandese, io ero stato incaricato di portare al Papa i doni all’Offertorio durante la Messa. Giovanni Paolo II mi strinse calorosamente la mano. Fu l’ultima volta che potei vederlo da vicino. Angelo Montonati
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