Più soli senza Gabriel Garcia Marquez

Il mondo adesso è più solo, anche se la luce dei suoi capolavori continuerà a far vibrare i sogni che ha saputo accendere con le sue atmosfere surreali, con personaggi nei quali ciascuno di noi ha trovato un pezzo di sè. Gabriel García Marquez se n’è andato a ottantasette anni nella sua casa di Città del Messico, dopo una lunga malattia, salutato da migliaia e migliaia di persone accorse ai suoi funerali, ai quali erano presenti i capi di Stato di Messico e Colombia, Enrique Pena Nieto e Juan Manuel Santos.

Premio Nobel per la letteratura nel 1982, Marquez era nato nel 1927 a Aracataca, villaggio fluviale della regione caraibica, primo di undici figli. Trascorre l’infanzia nella grande casa dei nonni, infestata dagli spiriti, dagli scheletri, dalle leggende di tesori nascosti nei muri e nei pavimenti, respirando il profumo delle storie di guerre e ribellioni del nonno colonnello e di quelle fantastiche e visionarie della nonna Tranquillina. Anche se lui non lo sa ancora, nasce qui il germe del futuro scrittore.

A vent’anni diventa giornalista, spinto da una passione che resterà intatta per il resto della sua vita. A metà degli anni Cinquanta, inviato dal quotidiano liberale di Bogotà «El Espectador» come cronista, va a Roma, dove frequenta i corsi del Centro sperimentale di cinematografia e fa amicizia con Zavattini, poi a Parigi, dove scrive come un forsennato per un anno ma alla fine non ha i soldi per pagare l’albergo. La padrona, intenerita dal personaggio, gli condona il debito. Nel 1958 sposa la fidanzata Mercedes, che rimarrà al suo fianco per oltre mezzo secolo, e diventa amico di Fidel Castro, un’amicizia più intellettuale che politica, nata da uno scambio di libri, «Il diario dell’anno della peste» di De Foe e «Dracula» di Stoker.

Nel 1955 escono il suo primo romanzo, «Foglie morte», storia del suicidio di un medico, influenzata da Faulkner, e il «Racconto di un naufrago», réportage sul naufragio di un marinaio, rimasto dieci giorni alla deriva su una zattera senza cibo né acqua. Nel 1961 pubblica il suo romanzo forse più bello, «Nessuno scrive al colonnello», storia di un anziano colonnello, Aureliano Buendia, che, nell’attesa di una pensione che non arriva mai, rifiuta di vendere l’unico bene che possiede, un magnifico gallo da combattimento, perché legato al ricordo del figlio ucciso. Nel 1962 esce «La mala ora», storia di lettere anonime che coinvolge e avvelena un intero paese, forse ispirata da uno straordinario film francese, «Le corbeau» (1943) di Clouzot.

A quarant’anni raggiunge improvvisamente la fama e la popolarità con «Cent’anni di solitudine» (1967), un romanzo cult che ha venduto oltre cinquanta milioni di copie ed è stato tradotto in una trentina di lingue. La saga della famiglia Buendia, popolata di donne coraggiose che lottano per la continuità e l’unione della stirpe e di maschi che inseguono sterili illusioni, incanta i lettori, nonostante la difficoltà nel distinguere l’identità dei vari personaggi dai nomi che si assomigliano un po’ tutti, come nei romanzi russi.

Pubblicato prima in Argentina e poi in Spagna, esce nel maggio 1968 in Italia da Feltrinelli con un successo strabiliante: le ottomila copie della prima edizione vengono esaurite in una settimana e alla fine dell’anno si arriva a centomila. E’ una data significativa, quella della contestazione studentesca e della “fantasia al potere” proclamata sulle barricate parigine, mentre l’America è percorsa dalla protesta degli hippy e dai miti rivoluzionari di Che Guevara.

La memoria delle storie fantastiche della nonna Tranquillina ispira i sette racconti riuniti sotto il titolo dell’ultimo, «L’incredibile e triste storia della candida Erendira e di sua nonna» (1972).

Dopo molti anni di accanito lavoro, esce il suo romanzo più impegnato, anche se non sempre convincente sul piano letterario, «L’autunno del patriarca» (1975), che attraverso un discorso continuo, senza segni di interpunzione, narra la storia di una dittatura attraverso la vita di un generale golpista.

García Marquez è ormai diventato un’icona e le sue opere successive, anche se ottengono un grande successo di pubblico, dilatato dalla trasposizione in film piuttosto decorativi, non convincono per un eccesso di manierismo. «Cronaca di una morte annunciata» (1981) è la storia rusticana di un delitto d’onore, «L’amore ai tempi del colera» (1985) è una vicenda ottocentesca di amore e morte da feuilleton, protratta per mezzo secolo, «Il generale nel suo labirinto» (1989) è ispirato alla vita e agli amori di Simon Bolivar, eroe della lotta per l’indipendenza ispano-americana.

Le ultime opere, «Dell’amore e di altri demoni» (1994) e «Memorie delle mie puttane tristi» (2005), l’ultimo romanzo che è un omaggio allo scrittore giapponese Yasunari Kawabata, denunciano una certa stanchezza e uno scivolamento nel saggistico per il venir meno della freschezza narrativa.

Con il suo linguaggio colorato, acceso, ricco di metafore e iperboli, talvolta sin troppo lussureggiante e baroccheggiante, sostenuto da una fantasia sfrenata, García Marquez è stato un ottimo scrittore, anche se non grandissimo. Il suo merito, nella storia della letteratura del secondo Novecento, è stato quello di aver dato un’iniezione di vitalità, energia e epicità al romanzo, che in Europa attraversava un momento di crisi della fabulazione, tra gli sperimentalismi del nouveau roman e della neoavanguardia.

E’ merito del suo successo se è nata la moda della letteratura latino-americana negli anni Sessanta e Settanta, con la scoperta di autori come Ernesto Sábato, Julio Cortazar, Juan Rulfo, Felisberto Hernandez, Guimarães Rosa, Alejo Carpentier, che prima di lui avevano contribuito alla diffusione dell’etichetta di “realismo magico”, un ossimoro generico che rappresenta l’essenza stessa della letteratura, applicabile a tutti i grandi scrittori. Già i maestri del “realismo” ottocentesco, da Balzac a Dostoevskij, da Dickens a Zola, come sappiamo da tempo, erano di fatto dei visionari.

Lo stesso Gabo, come lo chiamavano familiarmente gli amici, diceva che nell’America latina è «totalmente fantastica anche la vita quotidiana». Macondo, ispirata alla nativa Aracataca, appartiene alla geografia dei luoghi immaginari ed è stata paragonata da Carlos Fuentes, lo scrittore messicano suo amico scomparso due anni fa, alla contea di Yoknapatawpha di Faulkner.

Massimo Romano

 

PEZZO  13 A

 

 

Il mondo adesso è più solo, anche se la luce dei suoi capolavori continuerà a far vibrare i sogni che ha saputo accendere con le sue atmosfere surreali, con personaggi nei quali ciascuno di noi ha trovato un pezzo di sè. Gabriel García Marquez se n’è andato a ottantasette anni nella sua casa di Città del Messico, dopo una lunga malattia, salutato da migliaia e migliaia di persone accorse ai suoi funerali, ai quali erano presenti i capi di Stato di Messico e Colombia, Enrique Pena Nieto e Juan Manuel Santos.

Premio Nobel per la letteratura nel 1982, Marquez era nato nel 1927 a Aracataca, villaggio fluviale della regione caraibica, primo di undici figli. Trascorre l’infanzia nella grande casa dei nonni, infestata dagli spiriti, dagli scheletri, dalle leggende di tesori nascosti nei muri e nei pavimenti, respirando il profumo delle storie di guerre e ribellioni del nonno colonnello e di quelle fantastiche e visionarie della nonna Tranquillina. Anche se lui non lo sa ancora, nasce qui il germe del futuro scrittore.

A vent’anni diventa giornalista, spinto da una passione che resterà intatta per il resto della sua vita. A metà degli anni Cinquanta, inviato dal quotidiano liberale di Bogotà «El Espectador» come cronista, va a Roma, dove frequenta i corsi del Centro sperimentale di cinematografia e fa amicizia con Zavattini, poi a Parigi, dove scrive come un forsennato per un anno ma alla fine non ha i soldi per pagare l’albergo. La padrona, intenerita dal personaggio, gli condona il debito. Nel 1958 sposa la fidanzata Mercedes, che rimarrà al suo fianco per oltre mezzo secolo, e diventa amico di Fidel Castro, un’amicizia più intellettuale che politica, nata da uno scambio di libri, «Il diario dell’anno della peste» di De Foe e «Dracula» di Stoker.

Nel 1955 escono il suo primo romanzo, «Foglie morte», storia del suicidio di un medico, influenzata da Faulkner, e il «Racconto di un naufrago», réportage sul naufragio di un marinaio, rimasto dieci giorni alla deriva su una zattera senza cibo né acqua. Nel 1961 pubblica il suo romanzo forse più bello, «Nessuno scrive al colonnello», storia di un anziano colonnello, Aureliano Buendia, che, nell’attesa di una pensione che non arriva mai, rifiuta di vendere l’unico bene che possiede, un magnifico gallo da combattimento, perché legato al ricordo del figlio ucciso. Nel 1962 esce «La mala ora», storia di lettere anonime che coinvolge e avvelena un intero paese, forse ispirata da uno straordinario film francese, «Le corbeau» (1943) di Clouzot.

A quarant’anni raggiunge improvvisamente la fama e la popolarità con «Cent’anni di solitudine» (1967), un romanzo cult che ha venduto oltre cinquanta milioni di copie ed è stato tradotto in una trentina di lingue. La saga della famiglia Buendia, popolata di donne coraggiose che lottano per la continuità e l’unione della stirpe e di maschi che inseguono sterili illusioni, incanta i lettori, nonostante la difficoltà nel distinguere l’identità dei vari personaggi dai nomi che si assomigliano un po’ tutti, come nei romanzi russi.

Pubblicato prima in Argentina e poi in Spagna, esce nel maggio 1968 in Italia da Feltrinelli con un successo strabiliante: le ottomila copie della prima edizione vengono esaurite in una settimana e alla fine dell’anno si arriva a centomila. E’ una data significativa, quella della contestazione studentesca e della “fantasia al potere” proclamata sulle barricate parigine, mentre l’America è percorsa dalla protesta degli hippy e dai miti rivoluzionari di Che Guevara.

La memoria delle storie fantastiche della nonna Tranquillina ispira i sette racconti riuniti sotto il titolo dell’ultimo, «L’incredibile e triste storia della candida Erendira e di sua nonna» (1972).

Dopo molti anni di accanito lavoro, esce il suo romanzo più impegnato, anche se non sempre convincente sul piano letterario, «L’autunno del patriarca» (1975), che attraverso un discorso continuo, senza segni di interpunzione, narra la storia di una dittatura attraverso la vita di un generale golpista.

García Marquez è ormai diventato un’icona e le sue opere successive, anche se ottengono un grande successo di pubblico, dilatato dalla trasposizione in film piuttosto decorativi, non convincono per un eccesso di manierismo. «Cronaca di una morte annunciata» (1981) è la storia rusticana di un delitto d’onore, «L’amore ai tempi del colera» (1985) è una vicenda ottocentesca di amore e morte da feuilleton, protratta per mezzo secolo, «Il generale nel suo labirinto» (1989) è ispirato alla vita e agli amori di Simon Bolivar, eroe della lotta per l’indipendenza ispano-americana.

Le ultime opere, «Dell’amore e di altri demoni» (1994) e «Memorie delle mie puttane tristi» (2005), l’ultimo romanzo che è un omaggio allo scrittore giapponese Yasunari Kawabata, denunciano una certa stanchezza e uno scivolamento nel saggistico per il venir meno della freschezza narrativa.

Con il suo linguaggio colorato, acceso, ricco di metafore e iperboli, talvolta sin troppo lussureggiante e baroccheggiante, sostenuto da una fantasia sfrenata, García Marquez è stato un ottimo scrittore, anche se non grandissimo. Il suo merito, nella storia della letteratura del secondo Novecento, è stato quello di aver dato un’iniezione di vitalità, energia e epicità al romanzo, che in Europa attraversava un momento di crisi della fabulazione, tra gli sperimentalismi del nouveau roman e della neoavanguardia.

E’ merito del suo successo se è nata la moda della letteratura latino-americana negli anni Sessanta e Settanta, con la scoperta di autori come Ernesto Sábato, Julio Cortazar, Juan Rulfo, Felisberto Hernandez, Guimarães Rosa, Alejo Carpentier, che prima di lui avevano contribuito alla diffusione dell’etichetta di “realismo magico”, un ossimoro generico che rappresenta l’essenza stessa della letteratura, applicabile a tutti i grandi scrittori. Già i maestri del “realismo” ottocentesco, da Balzac a Dostoevskij, da Dickens a Zola, come sappiamo da tempo, erano di fatto dei visionari.

Lo stesso Gabo, come lo chiamavano familiarmente gli amici, diceva che nell’America latina è «totalmente fantastica anche la vita quotidiana». Macondo, ispirata alla nativa Aracataca, appartiene alla geografia dei luoghi immaginari ed è stata paragonata da Carlos Fuentes, lo scrittore messicano suo amico scomparso due anni fa, alla contea di Yoknapatawpha di Faulkner.

Massimo Romano



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