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Il nuovo mondo di DorèQuelli fuori moda sono anche quelli che rimangono sempre di moda, almeno quando il loro lavoro continua a essere “consumato” nella grande galassia dell'immaginario collettivo. E Gustave Dorè, nell'universo delle memorie, c'è da sempre. Le sue incisioni della Bibbia, del «Don Chisciotte», dell'«Orlando Furioso», della «Commedia» hanno “fermato” quelle immagini nella mente di generazioni: il Mosè con le tavole della Legge o l'angelo con la spada fiammeggiante che custodisce il Purgatorio sono, quando andiamo a ripescarli nella nostra mente, quelli di Doré. La mostra parigina al Museo d'Orsay, «La fantasia al potere» (fino all'11 maggio), parte da questa premessa, non poi così ovvia, per raccontare un altro Doré (o tutti gli altri, che si fusero nella stessa personalità di artista poliedrico e autodidatta, pittore, scultore, incisore, stampatore), considerato «minore» dalla critica contemporanea perché le sue opere erano «illustrazione» di parole dette da altri. Doré lo sapeva, e ci pativa. Così i curatori, giusto all'inizio del percorso, hanno messo un quadro stupefacente, quel «Fra cielo e terra» che potrebbe essere stato dipinto da Dalì, da un dadaista o da qualche altro visionario surrealista: una cicogna a becco spalancato si prepara a inghiottire un ranocchio in mezzo al cielo, mentre dall'altra parte un altro uccello esce vittorioso dallo strappo provocato nell'aquilone. In basso, nella pianura, la cattedrale di Strasburgo ricorda i luoghi d'origine di Doré e gli uomini, loro sì piccoli come formiche, si preparano a lanciare altri aquiloni, o forse a fare la guerra. La fantasia visionaria dell'autore fa venire in mente da subito addirittura Hieronymus Bosch. Ma guardando si scopre che manca qualcosa che in Bosch invece è evidente: dalla visione di Doré non arriva nessun richiamo interiore, e nessuna inquietudine. Non ci sono domande folgoranti che assalgono all'improvviso, buttando lo spettatore fuori tema e obbligandolo a guardare non il quadro, ma la propria esistenza… A riprova subito dopo la mostra propone una coppia di quadri sullo stesso soggetto, il bambino ferito. Un clown guarda con preoccupazione la donna che stringe al petto il suo bambino, colpito alla testa forse da un sasso, forse già morto. E anche qui ci si trova di fronte alla «rappresentazione» dei sentimenti, più che ai sentimenti stessi. Il «Tamburino» di Manet è al piano di sotto, nella collezione permanente di Orsay; ma lui, senza muovere un muscolo, col suo sguardo fisso, ha ben altro da dire. La scena pietosa e straziante che Doré dipinge con maestria va invece benissimo, appunto, per la copertina della «Domenica del Corriere». La sofferenza personale di Doré per non riuscire mai ad entrare nell'olimpo dei «poeti laureati» è uno dei temi ricorrenti della mostra. Ma in realtà rende simpatico il personaggio e aiuta a capire che la sua vera grandezza è altrove: propriamente nella capacità, anzi, nella sapienza, con cui Doré rappresenta le idee e la parole altrui, facendole diventare quelle immagini che si insediano poi nelle memorie di tutti. È l'illustrazione il suo vero regno; e la mostra ricostruisce l'intera catena creativa di questo vero «autore», capace di interpretare i soggetti più diversi e di esprimere contenuti propri, idee politiche e intuizioni culturali. Doré è tra i protagonisti della prima grande stagione della carta stampata, nei decenni centrali dell'Ottocento. I giornali, quotidiani e periodici, sono la punta di diamante, l'eccellenza del sistema informativo, che si sta allargando dal pubblico borghese ai ceti più popolari (sono gli stessi anni in cui nascono gli organi di stampa di ispirazione cattolica e socialista, in Francia come in Italia e nel mondo tedesco). Doré lavora per diversi quotidiani parigini, le sue caricature e le sue vignette sono, ben prima delle fotografie, rappresentazione e insieme giudizio su ogni passaggio dei «tempi nuovi» che vanno maturando. L'illustrazione, nel tempo di Doré, è davvero al centro dell'informazione; ed è il canale privilegiato per comunicare contenuti politici e culturali. Il tempo magico della Belle Epoque è tale anche perché in quegli anni si assiste ad un costante allargamento della base dei consumatori di informazione: nasce quel ceto medio che ha poi fatto la fortuna dell'Occidente e che oggi, dopo la “guerra fredda”, viene liquidato dai nuovi dittatori della finanza e dell'informatica. Doré è l'anima stessa di questo ceto medio. Il suo lavoro per i giornali, come le grandi epopee che illustrano i testi fondativi dell'Occidente (Bibbia, Commedia, Chisciotte, Gargantua, le fiabe), costruisce l'universo dell'immaginario che poi rimarrà ben saldo per tutto il XX secolo fino ad oggi. La cultura visiva compie con Doré un passo avanti decisivo per diventare veramente «contenuto di informazione». La mostra parigina racconta bene tale passaggio proponendo una serie di illustrazioni e quadri in cui Doré racconta la vita dei poveri a Londra e in Spagna e documenta lo sviluppo tumultuoso della metropoli britannica «fotografando» le opere concrete dei tempi nuovi: ferrovie e grandi magazzini, il porto di Londra, la Borsa… (Doré è un anglofilo accanito, aprirà anche una «gallery» per le sue edizioni in Inghilterra: un altro tratto un po' patetico, che però aiuta a comprendere il distacco della critica francese). Il rapporto fra parola e immagini si presenta come apparentemente semplice. Nella Bibbia, come nella Commedia, Doré sembra descrivere minuziosamente, come sotto dettatura, i particolari che sono indicati dalla parola scritta. Ma il risultato è sconcertante: perché il lavoro finito non è più Dante o Mosè o Cervantes ma è, appunto, Doré. La creatività che lui inseguiva affannandosi dietro gli impressionisti è in realtà patrimonio suo profondo, che si esprime non nelle intuizione dell'Arte ma nella mimesi dell'illustrazione. «Imitazione» è forse la parola chiave del suo lavoro: anche perché Doré non è fatto per raggiungere le vette o gli abissi, ma per contagiare col brivido del mistero (e del divino) i grandi numeri di lettori: come Dumas, o come Balzac… È la cultura di massa il mondo nuovo cui Doré approda con grande anticipo e che fa di lui il vero «artista» che avrebbe voluto essere da vivo. Le somiglianze e le derive dei suoi lavori verso il fumetto, persino verso il clip multimediale vengono evidenziate o suggerite con grande maestria dalle scelte della mostra. E forse non gli sarebbe dispiaciuto, oggi, lo spettacolo delle code del Museo d'Orsay: i molti in attesa per Doré erano poca cosa a confronto con la fiumana che aspettava un paio d'ore per andare a vedere l'altra rassegna del Museo, una banale raccolta con sei opere striminzite di un pittore che, lui sì, sembra essere stato imposto alla massa come mero oggetto di culto: Vincent van Gogh. Marco Bonatti
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