Il Veneto oggi: la realtà e i sogni

C’è chi partecipa a un casting per accompagnare uno sceicco e il suo stuolo di mogli, figli e parenti in giro per l’Europa a fare shopping. La selezione è in mano a un’agenzia padovana che si dice sorpresa dal numero di candidate, provenienti da ogni angolo della regione, per aspirare a 15 giorni di acquisti sfrenati. La notizia appare sui giornali il giorno seguente al blitz dei carabinieri di Brescia che ha portato all’arresto di 24 indipendentisti, di cui la massima parte di provenienza veneta.

Sono queste le storie, originarie dalle terre un tempo dominio della Serenissima, che rimbalzano sui media nazionali in questi ultimi giorni. Un teatrino che cambia personaggi, ma nemmeno poi tanto: perché il veneto, dalla Commedia dell’arte agli sketch dei comici di oggi, è sempre un po’ tonto, credulone, in fondo un pacioccone a cui basta la sua fabbrica dove lavorare tutti i giorni duramente a testa bassa, anche di domenica, dopo la messa. Così accanto alle Colombine, servette oggetto delle attenzioni del padrone di turno, ci sono anche gli schiavi bastonati, gli “Zanni” che hanno il compito di prenderle sempre. Ma ce lo hanno sempre detto di non far arrabbiare i buoni, che non si sa mai come va a finire. Potrebbe capitare che decidano di organizzare una rete e costruiscano un tanko con un trattore, che lavorino per la ribellione violenta, che vogliano rovesciare il tavolo.

Luoghi comuni, stereotipi: tutto serve a raccontare, dalle signorine infatuate della prodigalità di uno sceicco, agli irriducibili capaci di un’azione eversiva pur di dare gambe al sogno, mai sopito, dell’indipendenza veneta dall’Italia. Serve tutto, specie quando la realtà sfugge e non si riesce a capire in che direzione vada il cambiamento, se ci sia una via di uscita. Che regione sta diventando il Veneto? Venezia, dogi, calli, San Marco, basilica del Santo, Teatro Olimpico, Arena. Corri veloce in poche ore, su un treno o in autostrada, per capire attraverso la storia e la bellezza trincerata nei centri storici, che cosa stia accadendo. Perché i giornali non bastano, anzi, sviano dalla realtà. Descrivono i fatti, ma la fotografia non viene mai a fuoco. Si parte con la voglia di capire, di ascoltare, ma appena lo sguardo si sofferma sul paesaggio non si fa molto di più che intravedere scenari incantevoli tra un muro e l’altro dei capannoni. L’armonia naturale dei dipinti di Cima da Conegliano non c’è più. Certo, sono passati più di cinque secoli, ma il Novecento ha a dir poco prodotto un restyling, come si usa dire oggi, della realtà: in 40 anni 1.800 chilometri quadrati di campi se ne sono andati via in cemento, pari all'intera provincia di Rovigo.

I veneti sono in ogni parte del mondo, in ogni Paese in cui si potesse e si possa ancora emigrare. La terra è stata così amara, prima dell’avvento dell’agricoltura intensiva, che, quando si è potuto rientrare a casa, dall’estero o dalla Lombardia, dal Piemonte, là dove c’erano le fabbriche, è stato quasi liberatorio dominarla, costruirci sopra, farla fruttare in un altro modo, ricondurla a una siepe ornamentale attorno al fabbricato. Quelle aziendine nate nella rimessa degli attrezzi agricoli, o nei sottoscala, poi sono diventate qualcosa di cui andar fieri. Si sono creati i distretti, tutto ha continuato a galoppare nella giusta direzione. Lavoro, tanto lavoro. Politica, giusto quella che serviva per continuare a produrre, usata soprattutto in modo privatistico per interessi al massimo di categoria o di campanile.

Impressiona come le foto scattate solo 15 anni fa descrivano una regione che sta sbiadendo velocemente. Chi sono i veneti? «Siamo individualisti», afferma Claudio Gramaglia, presidente di «Veneto responsabile», un’associazione padovana che da dieci anni promuove la cultura della responsabilità sociale d’impresa e di territorio, raggruppando 40 organizzazioni tra sindacati, terzo settore, imprese, banche del credito cooperativo e Banca etica, «ma ormai stiamo capendo che non ce la facciamo, che il sistema non regge più se si pretende di andare avanti da soli». Una comprensione della realtà che ha spinto molti cittadini a organizzarsi in gruppi, movimenti, associazioni, dediti alla tutela del patrimonio, del paesaggio, dei beni comuni. Per rispondere in qualche modo, partendo dal basso, a ciò che manca.

Le istituzioni paradossalmente ci sono, tentano di organizzarsi a loro volta, ma hanno un brutto vizio: quello di non ascoltare, di irrigidirsi di fronte alle richieste di risposte concrete e di condivisione che questa parte di popolazione avanza. Più che muri di gomma, sono cancelli che si chiudono.

Come chiudono quelli delle fabbriche, mentre si aprono quelli dei cimiteri per i continui suicidi di piccoli imprenditori. «In pratica molti movimenti di partecipazione sono stati ricacciati indietro dalla politica e non riescono ad ottenere risposte», continua Gramaglia. «Questa crescente partecipazione è vista dalla politica con sospetto, mentre non si capisce che si deve ripartire da qui, da una cultura della condivisione. Ma sa quanto sta facendo il volontariato in questa regione per dare una mano alle famiglie in difficoltà? La Caritas e le parrocchie stanno svolgendo un lavoro che spetterebbe ad altri, però, se si aspetta, le situazioni esplodono. Ormai ci sono ragazzi che non vanno più a scuola, malati che smettono di curarsi per problemi economici. Il problema, in Veneto, è che non si chiede aiuto, sia perché si è abituati a fare tutto da soli, sia perché per cultura non si devono raccontare le proprie disgrazie agli altri».

Per ogni imprenditore che si suicida, muore un eroe. L’epica veneta è costellata da uomini che si sono sacrificati a un ideale massimo, capaci di trainare intere famiglie fuori dalla miseria grazie ad una straordinaria volontà e al saper fare un mestiere. Un immaginario glorioso e fantastico, nel quale molti hanno creduto, riuscendo anche a ottenere risultati incisivi. La politica, invece, è sempre stata subita come uno strumento di spoliazione che restituisce solo prebende localistiche. L’avventura di governo dei “barbari sognanti” non ha cambiato di segno questa relazione. Così anche quelli che ci avevano creduto adesso si sono stancati di parole. A fronte di una fetta di popolazione ancora fiduciosa nella capacità del governo Zaia, c’è una maggioranza persa e arrabbiata, che giustifica le azioni di un manipolo rivoluzionario o che sostiene le motivazioni del fantomatico referendum on-line, sebbene i numeri non diano ragione agli entusiasmi dei promotori.

Il problema, per questi veneti, sono gli altri: è lo Stato centrale, è l’abbraccio soffocante di due regioni a statuto speciale. Il nemico è fuori dalla porta, insomma. «Si fatica a tenere unite anche le associazioni che hanno aderito al progetto di Veneto solidale», continua Gramaglia, «perché la pulsione al fare da soli è ancora forte. Certo, non è come in Emilia, dove si riesce a fare squadra tra imprese, comunità locali e territorio. Però è questa la strada, perché le sfide non le vince l’imprenditore da solo, ma tutto il sistema in cui opera. Le divisioni politiche devono fare un passo indietro di fronte alle esigenze di rilanciare un intero contesto produttivo e sociale. I giovani veneti hanno un grande ruolo da giocare oggi: quello di apportare un pensiero collaborativo, di stimolare il cambiamento. A loro serve più potere decisionale, perché già grazie alla tecnologia si muovono in una cultura orizzontale».

C’è chi ha definito il Veneto «il sismografo di tutti i cambiamenti e le crisi del Paese»: di certo questo ruolo non l’ha voluto nessuno. Ma è anche vero che dall’assalto al campanile di San Marco nel 1997 a oggi non è cambiato nulla. Anzi, qualcosa è mutato: si sono infranti dei sogni, si continuano a chiudere fabbriche. Però c’è anche chi innova, chi lavora per riqualificare l’ambiente e l’agricoltura. Molti giovani se ne vanno, è vero. Forse, però, la loro rivoluzione silenziosa abbatterà dei muri. Taglierà le siepi e aprirà la visuale.

Fabiana Bussola



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