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La corsa di RenziSe tutto fosse così chiaro nella politica italiana come appare in questi giorni, non ci sarebbe da temere nulla di quanto possa far pensare a una imminente caduta del governo Renzi, all’impossibilità di formarne un altro prima del voto per il Parlamento europeo (e, poco dopo, del passaggio all’Italia del semestre di governo dell’Unione), allo scioglimento delle Camere e a nuove elezioni politiche entro quest’anno. Perché tutto questo non dovrebbe verificarsi? In fondo, per una sola ragione: perché in nessun partito, di maggioranza o di opposizione, c’è qualcuno che, occupando posti istituzionali, voglia la fine anticipata della legislatura e “andare a casa”, come si dice adesso, con pochissime speranze di tornare a occupare quei posti. Si può obiettare che almeno un partito lo vorrebbe, e cioè il M5S: ma non va dimenticato che dal movimento di Beppe Grillo un gruppo non indifferente ne è già uscito o ne è stato espulso, e che c’è un nemico comune a tutta la classe politica italiana,e cioè il rischio dell’astensionismo (ne vedremo la consistenza il 25 maggio, alle “europee”). Dunque, Renzi sembra saldo a Palazzo Chigi, e non solo per le ragioni che abbiamo cercato di esporre fin qui, ma anche e forse soprattutto perché il suo modo di governare e specialmente di presentare all’opinione pubblica il proprio operato e il ritmo con cui cerca di realizzarlo giorno dopo giorno appare come l’unico in grado di sostenere la sfida di cui è consapevole fino all’arroganza: cioé il bisogno di rispondere il più rapidamente possibile al desiderio degli italiani che il sistema venga cambiato, perché la ripetizione del passato chiude ogni speranza di ripresa e di crescita economica e sociale. Il problema dunque è di sapere non quanto e perché Renzi è destinato a durare, ma se ce la farà a concretizzare quello che promette da più di anno. Per esempio, è di queste settimane che precedono il voto europeo (e contemporaneamente quello regionale del Piemonte) la scommessa sull’approvazione parlamentare, almeno in primo grado, del disegno di legge sulla riforma, o meglio della diminutio capitis del Senato, non più elettivo, non più retribuito, più che dimezzato nei componenti (nominati da Regioni e Comuni, e in parte, 21, dal Capo dello Stato) non più in grado di dare o negare la fiducia al governo, o di votare il bilancio dello Stato: dunque, una realtà istituzionale molto diversa rispetto alla Costituzione, ma certo non illegittima né inconsueta nel panorama delle democrazie internazionali, dove la “Camera alta” è spesso poco più di un retaggio formale degli antichi regimi monarchici autoritari. Renzi ha già detto che se il Parlamento non approverà questo disegno di legge vorrà dire che non ci si potrà più illudere sulla possibilità di cambiare il Paese per adeguarlo al mondo globalizzato, in cui i rapporti fra gli Stati non sono più regolati nzionalisticamente, ma in base a sistemi comunitari e soprattutto a potentati internazionali di natura economico-finanziaria. Il premier ha fretta, e lo dimostra, al punto che sfida l’altro contraente del patto del gennaio scorso, Silvio Berlusconi, a volere prima la ratifica parlamentare del disegno di legge sul Senato e solo successivamente quella delle legge elettorale, che può aspettare, visto che ben difficilmente si andrà a votare, nei suoi programmi, prima del 2016. Se qualcuno nel suo partito, il Pd, decide di osteggiarlo, Renzi non si accontenta di definirlo membro di una «minoranza», si dichiara pronto ad andarsene dalla politica e «a fare altro nella vita». Può abbastanza tranquillamente parlare in questo modo, perché, da un lato, fra qualche giorno Berlusconi saprà come il Tribunale di Milano gli farà scontare un anno di pena dopo la sentenza di condanna definitiva, e quindi avrà un peso politico molto minore anche nel suo stesso partito, Forza Italia; dall’altro lato sa che nel Pd non esiste un altro leader in grado di ottenere il consenso della maggioranza degli iscritti e dei simpatizzanti, e certo non manterrebbe tutto l’attuale elettorato. Dunque, Renzi si dimostra tranquillo. Ma può dirsi lo stesso degli italiani? Non basta l’esempio attualissimo degli elettori francesi per far capire che gli estremismi di destra servono solo a raccogliere voti, ma non a garantire programmi seri di uscita dalla crisi, e quelli di sinistra, altrettanto inefficaci, non esistono praticamente più? Beppe Del Colle
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