Padre Girotti: due vite

Ho davanti a me i due gioielli di padre Giuseppe Girotti. Si tratta di commenti alla Sacra Bibbia: «I Sapienziali» (1939) e «Il libro di Isaia» (1941). Sono più di mille pagine nelle quali il giovane frate coniuga con naturalezza il candore del bimbo e l’erudizione del sapiente. I testi sono dedicati alla Consolata e qui, con allucinante trasparenza, appare la sua scarnificante Via Crucis. Alla luce del suo martirio le parole rivolte alla Vergine sono uno spaccato struggente della sua vita: «… Fu lei che ci salvò da estreme angustie e ci fece il dono più prezioso. Più bello, più grande che mai potessimo desiderare… a Lei, quindi lo doniamo quale tenue espressione di un immenso affetto».

Non tutti conoscono Giuseppe Girotti. Per un lungo periodo di tempo è stato quasi dimenticato. A dirlo oggi sembra strano, ma lo sterminio degli “indesiderabili” inizialmente venne rimosso. Eppure morivano 15 milioni di persone. Nel 1995 però il nome di fra Giuseppe venne inciso a Gerusalemme in Yad Vashem come «giusto fra le nazioni». Sarà beatificato sabato 26 aprile durante una celebrazione nel Duomo di Alba (Cn). La chiesa di San Domenico, a Torino, ne ricorda la figura venerdì 4 aprile, alle 21, durante la preghiera mensile di Taizé. Il priore Giovanni Bertolino benedirà l’immagine di Girotti.

Oggi Girotti è riconosciuto «beato» nella pace, ma per me fra Giuseppe continua ad essere quell’omino che ti fissa da dietro gli occhiali. Conosco i posti in cui ha vissuto i suoi ultimi giorni da uomo libero. Conosco san Domenico, quasi ci sono nato, e quando mi è capitato il suo libro sotto gli occhi ho chiesto di comprarlo. Si può dire che Girotti l’ho ritrovato per caso, in uno dei tanti conventi in smobilitazione, di questa terra di abbandono… La carta dei libri quasi rimane tra le mani, è carta di guerra, 70 grammi scarsi. Persino la copertina non è che un foglio, ma nel ’42 carta per libri non ce n’era quasi. Eppure, nonostante il conflitto, a soli 37 anni, Girotti pubblica un’opera capitale per la lettura di Isaia e dei Sapienziali. Nessuno lo dice, ma sarebbe stato un grandissimo biblista. Il Concilio lo avrebbe riscattato, come ha riscattato tanti, e quei libri oggi non sarebbero introvabili. Ma Girotti non sapeva dire di no, non resisteva ad una domanda d’aiuto: «Non rattristare un affamato», dice il Siracide, «non respingere la supplica di un povero». Lui la schiena a un povero non l’aveva mai data. Fino ad allora non aveva voltato le spalle nemmeno ai «perfidi giudei» che venivano braccati come bestie.

Aiutare un ebreo era però reato, così un giorno, dopo la messa, se lo sono portati via. E’ morto a Dachau, pochi giorni prima che arrivassero gli americani. E’ morto di stenti e di lui resta pochissimo, la firma su un registro delle messe, un crocifisso, qualche foto e questo straordinario testo che ho tra le mani. A Dachau chi non ce la faceva più veniva finito con una iniezione di benzina. Forse era ancora cosciente mentre offriva il braccio all’ago che l’avrebbe ammazzato. Forse avrà pensato all’incipit del suo libro: «Quei che seminan tra le lacrime, nel giubilo mieteranno». Aveva voluto iniziarlo così, con il Salmo 125. Aveva voluto ricordare le sue lacrime. Sembrerà strano, ma quel libro su Isaia l’aveva fatto piangere. Nella chiesa di allora certe cose non si dovevano neppure pensare e lui le pensava. Il testo di Isaia era considerato di un solo autore, poco importava se nella esegesi del libro questo risultava impossibile. Girotti doveva così conciliare verità e carità, senso della giustizia e obbedienza. C’era di che spezzare un uomo: «Abbiamo speranza», scrive, «che il Signore nella sua bontà verifichi, almeno nell’altra vita, la seconda parte della divina affermazione». Qui, in questa parte della vita, aveva avuto mortificazioni, umiliazioni, punizioni. Cacciato dall’insegnamento venne relegato in san Domenico.

Oggi non si dice, ma Girotti non era giudicato come un buon frate, non tutti l’amavano e poi diciamolo pure… fumava! Proprio così, contro il sacro canone quel frate si sedeva sui gradini e si accendeva una sigaretta. E’ vero, fumava, ma non c’era un povero che tornasse a mani vuote, un ebreo che non fosse rifugiato e tutto, tutto di nascosto ai superiori: Girotti non era solo uno scapestrato, era pericoloso! E’ difficile parlare dei santi, perché i santi piacciono da morti. Quando sono vivi sono dei gran rompiscatole, e non sembrano nemmeno tanto buoni. Girotti era solo un omino spaurito con un grande naso e due occhiali antichi. Due lenti rotonde troppo serie per quella faccia da disbela di campagna. Una faccia da contadino “grosso” in una testa fina.

Quando in campagna nasceva uno così ci si faceva in quattro per farlo studiare e così Giuseppe venne mandato nientemeno che dai domenicani. Nell’ordine domenicano, grazie a Dio, l’intelligenza non è considerata un pericolo, e lui ebbe accesso alle migliori scuole, fino ad essere ammesso a l’École Biblique di Gerusalemme. Qui insegnava uno dei più grandi biblisti del pianeta: fra Marie-Joseph Lagrange. E’ difficile immaginare cosa volesse dire per un ragazzo che aveva conosciuto l’ebraico sui libri girare per il quartiere giudeo e ascoltare il suono di una lingua resuscitata. E’ difficile immaginare cosa fosse la Terra Santa nel 1932. Oggi visitiamo una nazione prolifica, con 365 abitanti per chilometro. Vediamo un Paese ricco, rigoglioso, forte, ma dopo la grande guerra la Terra Santa era quanto rimaneva dell’impero Ottomano: un dominio di 680.887 km2 con una densità di soli 3 abitanti. Un deserto in cui sorgeva l’incredibile École Biblique, dove altri come lui potevano riempirsi della Parola.

In una foto di quei giorni fra Giuseppe sembra perso dietro agli occhiali. C’era in lui qualcosa di distonico: come spesso capita agli artisti, egli è così assorto da essere distratto. Leggere oggi l’esegesi di questo maestro della sacra Scrittura è sorprendente. La sua pagina certo è datata, il linguaggio è frenato, ma fatte salve alcune novità di oggi, Girotti produce un’opera di interesse attuale. Tutto il suo lavoro era all’insegna di una pietas sovrana. Isaia è qui un riferimento assoluto. Nel commento a Isaia la yire at Jahvè è una delle sue pagine più toccanti. Yire at Jahvè è il timore di Dio e si inserisce nel discorso sui doni dello Spirito. Girotti vaga, come era suo metodo, tra i testi che chiama con l’uso di allora Pescitto (Peshitta siriaca) e Targum, tra la LXX e la Vulgata. Ebraico, greco e latino vengono traslitterati e tradotti con la passione di un innamorato. Chi legge troverà in Girotti una prudenza eccessiva, ma Isaia era un terreno minato. Lui si attacca al maestro, a Tommaso d’Aquino. Qui religione e santità sono una medesima virtù (eadem virtus, S. Th. II-II, q.81, a.8) e la pietas, il timore di Dio, viene ricondotta nella tradizione, salvando la verità del testo. Un lavoro immane il suo, ma la sua passione non basterà a salvarlo. Chiunque legga Girotti sentirà, al di là della difficoltà del testo specialistico, il pulsare di una passione che dà la misura del suo dolore per l’allontanamento dall’insegnamento. Parliamoci chiaro, questo frate era un pessimo frate!

Forse per questo che è stato tanto amato dal Signore. Era un pessimo frate e anche un criminale. In fondo non lo era anche Gesù? Come il Signore benedetto anche fra Giuseppe troverà il suo Giuda. Padre Giuseppe Girotti è condannato da una delazione anonima e meschina. Ecco la pagina più buia di questa storia: il tradimento. Che dire? Nell’agosto del ’44 l’irruzione della polizia in convento è precisa, guidata, quasi chirurgica si direbbe oggi. Gli scherani sanno chi, sanno dove e sanno quando. Lui ha appena firmato la messa e li segue: lo sa che è lui il criminale, non ha mai voluto compromettere gli altri; anche per questo fa tutto di nascosto. Girotti ha aiutato l’ebreo, il nemico del genere umano e paga. A Torino il cardinal Fossati ha in piedi una certa “macchina” per far pressione sulla prefettura, questa si mobilita, ogni volta che può. Girotti, fortunatamente, non è il solo malandrino nella diocesi, altri preti si sporcano come lui. Ma per fra Giuseppe non c’è niente da fare. Per lui gli ingranaggi della magistratura sono implacabili e anche qui c’è un mistero. Cosa sia successo oggi non è possibile saperlo, ma nel ricordo di questo giusto fra le genti non si può dimenticare che per un innocente che muore c’è, da qualche parte, anche un infame che vive. Perdonare non significa dimenticare. Girotti muore e i compagni scrivono: «Qui ha dormito un santo». Quasi settant’anni dopo possiamo scriverlo anche noi nella sua stanza: «Qui ha dormito un santo». Il giuda è morto e per lui c’è solo la nostra commiserazione e l’infinita pietà di Dio.

Fabio M. Bodi o.p.

laico domenicano



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