![]() Accesso utente |
La bimba salvata dai delfini«Una bambina salvata in mare dai delfini cresce orfana su un’isola greca. Si chiama Irene, di giorno vive in terraferma, di notte si unisce in mare alla sua vera famiglia. a quattordici anni è incinta e consegna a uno straniero di passaggio la sua storia». Racchiusa in queste righe, nel risvolto di copertina, la presentazione del nuovo e atteso libro di Erri De Luca «Storia di Irene» (Feltrinelli): una vicenda sospesa tra realtà e sogno che ci invita a riscoprire il valore della favola in tempi dominati da un eccessivo tecnicismo reale e virtuale, per ricordarci che ogni vita umana è condizionata dal pensiero e spesso da un pensiero spinto, come vela al vento, verso sponde lontane e alcune volte irraggiungibili, lì dove si approda solo nella visione immaginifica. Di qui, il rapporto stretto e significativo, nelle nostre esistenze, tra concretezza e fantasia, tra realtà e sogno; aspetti molto presenti in certe favole che abbiamo ascoltato e amato nella nostra infanzia. E di favole non hanno bisogno solo i bambini: esistono anche favole per adulti, necessarie e funzionali ad un corretto rapporto con la realtà che presenta sempre dimensioni imprendibili e misteriose. Erri de Luca ritiene infatti che l’uomo d’oggi ha tante volte perso il contatto vero con la realtà perché ha smesso di sognare e di fantasticare, fermandosi a considerare solo ciò che si possiede con i propri sensi, allontanando dal vissuto la categoria del mistero, riducendo così il suo potenziale di trascendenza, quella sua unica possibilità di elevarsi nella relazione con l’altro e allontanarsi dal buco nero dell’individualismo. Ed è proprio storia di riduzione, quella che, incoscientemente, sperimenta la popolazione dell’isola greca dove vive Irene. I pescatori e le loro donne non riescono infatti ad accettare la diversità di questa ragazza orfana, non riescono a decifrare i suoi comportamenti e scattano sulla difensiva, rifiutandola. Di fronte a questa adolescente dal passato misterioso che vive di notte nel mare, incinta nonostante i suoi pochi anni, si pongono in un rapporto di ostilità, danno un giudizio feroce al suo silenzio e le riservano un futuro di emarginazione, chiudendo le loro porte, tappando le orecchie e chiudendo i loro occhi. Illusoriamente questa gente spera così di condizionare positivamente il proprio e altrui futuro, senza sapere che lo sta privando per sempre del senso del meraviglioso e della novità. Si estraniano completamente dalla vita di Irene, la quale non può che rituffarsi nel mare dal quale è venuta: la natura è madre e ha un cuore che batte per i suoi figli. Solo un uomo si ferma con lei, un forestiero poeta che la accoglie, la rispetta, la visita, le racconta la propria storia, dando a quella creatura (di terra? di mare? non importa…) dignità di persona. E’ un poeta che vive di segni e di sogni, e che non teme lo svelamento di un ignoto a prima vista incomprensibile. Anzi, ne è attratto e si fa ascolto attento, voce, vista, tatto per Irene che proviene dagli abissi e negli abissi intende ritornare. E lei, da vera figlia della natura, dove ogni cosa è in un rapporto d’amore, volutamente non capta l’indistinto e confuso respiro delle umani genti, ma preferisce captare le onde accoglienti secondo quei radar nati in lei dalla comunanza dei delfini marini che le hanno salvato la vita, che lei ama e dai quali è riamata. «Irene ha imparato lì la trasmissione del pensiero dal suo corpo a un altro». E si pone con fiducia di fronte alla disponibilità onesta e trasparente di questo sconosciuto, non temendo più di svelare la sua dimensione terrestre e acquatica. Figlia della natura e, forse domani, madre di essa. Lei continuerà a rifugiarsi ogni sera in quel plancton da cui le provengono i suoni ancestrali, le intuizioni, la leggerezza primordiale e continuerà a raccontare al poeta la sua storia e ad ascoltare le altrui parole e a domandare. «Irene chiede se raccolgo pure le storie che non sono ancora un resto. Lei ne porta una nel ventre. / Se vuoi che l’ascolto, l’ascolto. Non posso seguirla nel mare, mi perdo, ma a terra riesco. / Irene sa nuotare ad una velocità che non ho visto prima. Il mare sotto di lei è un elastico, i suoi colpi di gambe riunite sono stacchi di pinne. / Salta le onde a tuffo di cetaceo. Ti ha visto qualcuno andare a nuoto? Nessuno, lei scende di notte. / A me lo fa vedere perché c’entra con quello che mi vuole dire. / Si sdraia sulla rena, non mette le mani alla nuca e lascia i capelli sabbiarsi. Da stesa, la pancia diventa una chiglia. / Lei batte il palmo della mano sulla pelle tesa di tamburo. Sta qui dentro la storia./ Non è che lo dice, ma il gesto diventa una frase che ascolto». A contatto con Irene, il poeta comprende che si può vivere di mare e di cielo, proprio come lei, a cui il resto è invisibile e non le appartiene: «La terra è alta e bassa, non porta pareggio alle sorti. Il mare è più giusto, se un’onda si alza più su delle altre, poi scende». Dove farà nascere la sua creatura? Irene non ha dubbi: nel mare. E sarà creatura di mare. E lei sarà madre: perché ha generato la vita e l’ha donata. I genitori sono eterni, rivivono nel figlio e i figli nei loro figli, e solo così il tempo si dilata per diventare infinito. Il poeta comprende e gioisce della scoperta: si viene dall’infinito e si naviga verso sponde sconosciute, oltre i confini dell’universo. E quel figlio atteso e donato al mare darà ad Irene l’eternità. La storia di Irene si sviluppa su una partitura leggera fatta di suoni e di musica, ma anche di colpi di piccone e di suoni sordi di tamburo. E si intreccia con la partitura dello sconosciuto che non può non aprire alla giovane fanciulla il suo passato di lotte violente e di morti, la sua ispirazione letteraria fiorita dal dolore: «Bisognava mettere mano alla vita dopo le mattanze. / Il lancio di riso all’uscita delle magre nozze rimarginava i vuoti. Le nascite servivano a rimborsare i lutti. / Racconto ad Irene il Sud e il tempo dal quale provengo. / Lei non può risalire a un’ora, a una notte di abbracci che l’hanno suscitata, come succede al fuoco soffiandoci sopra. / Irene è senza il tempo accaduto prima, lei inizia da se stessa. / Ogni giorno potrebbe essere il tuo compleanno, le dico. Ogni giorno lo è. / Nessun giorno per lei è meno di un altro». Una scrittura decisamente poetica, ricca di richiami, di assonanze di lucide iperboli. Ogni frase ha però la forza di uno scalpello in mano allo scultore che, nel sudore, opera la meraviglia e trae dal marmo una forma prima inesistente. Il libro si completa con due racconti brevi, «Il cielo in una stalla» e «Una cosa molto stupida», sul tema della povertà e della guerra, apparentemente slegati per forma e contenuto dalla favola di Irene. Ma è come se De Luca, riportandoci alla realtà dopo averci nutrito di fantasia e di sogno, con la «Storia di Irene» ci desse nuovi occhi per guardare e amare il nostro triste tempo. Pasquale Lubrano
|