Infanzia magica sul Po

«L’esordio letterario di un novantatreenne». Così recita la fascetta di «Lungo l’argine del tempo» (Skira, pp. 148, 15 euro) di Giuseppe Sgarbi, che ha per sottotitolo «Memorie di un farmacista». E’ un libro autobiografico di sorprendente freschezza narrativa, la vita vissuta da un uomo che non ha mai soffocato il bambino che era in lui, non ha mai tradito le radici dei luoghi in cui è nato, né i valori in cui ha creduto, l’onore e l’umiltà sopra tutti.

Quest’uomo, nato nel 1921 a Stienta, «una croce di strade, una piazza e un campanile sulla riva sinistra del Po», un borgo che «non arrivava nemmeno a quattromila anime» tra Ferrara e Rovigo, Emilia e Veneto, ha trascorso un’infanzia felice in una casa col mulino, «una di quelle case di campagna fatte a forma di casa, che danno un senso di equilibrio e solidità, con le finestre che ti guardano negli occhi e ti promettono che, qualunque cosa accada, lì dentro sarai sempre al sicuro».

Il Po è il protagonista sotterraneo del libro, il grande fiume sui cui argini scorre lenta la vita di gente solida e terragna, che da esso riceve nutrimento e bellezza, ma anche immani disastri, come è accaduto con l’alluvione del Polesine nel ’51, tragico momento storico che conclude la narrazione. «Il fiume te lo porti dentro. Scorre nelle vene come il sangue. Non c’è verso di liberarsene. Non te ne puoi allontanare, e non puoi correre più veloce di lui. Ti segue e tu lo segui, spesso volentieri, non solo per la sua voce, ma anche per la sua ospitalità accogliente, il suo rifugio sempre aperto negli spazi della memoria».

La memoria di quest’uomo silenzioso e testardo, riservato e umile, fa strani scherzi: accorcia il tempo, e come per magia ottant’anni diventano «ieri», lo cancella, perché l’oblio ci impedisce di ricordare ogni istante, lo allunga, perché quegli istanti fulminei sono passati in fretta ma diventano eterni nella nostra mente. Sono come epifanie proustiane, verdi paradisi perduti dell’infanzia che aiutano a vivere e alimentano il ritmo della scrittura. «Tutto di quel bambino, però, è ancora dentro di lui: il ragazzino che costruiva aeroplanini di carta, sognando di staccare i piedi da terra e sorvolare, in pochi istanti, spazi immensi, seduto di fianco al grande trasvolatore [Balbo], nella cabina di pilotaggio di uno dei suoi incredibili idrovolanti; l’adolescente che ogni pomeriggio faceva i compiti il più in fretta possibile per correre al cinema e poi tirava mattina a imparare le stelle e a chiacchierare di niente, insieme al suo amico “americano”; il ragazzo che attraversava l’argine, come un acrobata su un filo teso tra terra e fiume, pedalando senza mani in sella alla sua fiammeggiante Olympia; l’uomo che gareggiava in astuzia e riflessi, con gli scaltri e veloci abitanti del fiume, delle campagne e del cielo sopra di loro».

Molti sono i ricordi che costellano le memorie del farmacista: gli studi «fuori casa fin da piccolo» a Camerino, Ancona, Ferrara, la vita militare non spiacevole per un uomo come lui, amante dell’ordine, della precisione e delle regole, la guerra in Grecia, Albania, e poi vissuta nelle caserme a L’Aquila, Civitavecchia, Genova, Ventimiglia, i primi amori, le letture, la maturità, la laurea. E soprattutto la sua passione per la caccia e la pesca, con pagine di assoluto incanto che ricordano Turgenev o Hemingway, quando descrive il rapporto silenzioso, ma di intensa tensione, tra la selvaggina e il cane, o i preparativi per la caccia in botte alle anatre.

Alla fine della guerra conosce Caterina Cavallini, «una delle più belle ragazze di tutta Ferrara», si laureano entrambi in farmacia, poi la sposa e rimane innamorato di lei per tutta la vita. Avranno due figli di cui essere orgogliosi, Vittorio, noto critico d’arte e personaggio televisivo, ed Elisabetta, direttore editoriale della Bompiani, a cui ha dettato questo libro.

Di tutti gli episodi della sua vita il momento più intenso rimane la traversata del Po in piena sul battello della Nena, una donna di cinquant’anni, «un’anima di fiume» il cui viso «sembrava scolpito nel coraggio e nella fatica». Giuseppe ha lasciato la moglie, la casa di Ro e la farmacia, dove «l’onda di piena era passata senza fare danni», con l’intento di raggiungere Stienta, dove vivevano la madre, le tre sorelle e la zia. Il paese è «un campo di acqua e fango» e i piani bassi delle case sono sommersi. «Girare in barca per le strade del paese era impressionante: un cimitero a cielo aperto, nel quale, come fantasmi senza meta, si aggiravano i sopravvissuti».

Nonostante tutto, il narratore di questa storia della provincia italiana, una delle tante, ma raccontata con un garbo delizioso, a novantatre anni è ancora un bambino che «si nasconde dentro questo anziano signore, circondato da libri che non riesce quasi più a leggere, e dallo sguardo luminoso di una delle più belle ragazze di Ferrara». L’unica differenza che lo distingue da quel bambino è il fatto che con l’esperienza ha imparato ad apprezzare il valore delle cose. Ma come quel bambino sa ancora emozionarsi per «le cose semplici e vere della terra: un filare d’uva, un campo appena arato, i riflessi d’argento tra le foglie dei pioppi, un tramonto sul fiume».

C’è un rimpianto che ogni tanto lo punge, come un punteruolo piantato nel cuore, il fatto di aver lasciato Stienta, il suo paese natale, perché «soffriamo sempre quando dobbiamo lasciare la nostra terra, anche se andiamo a stare meglio e nemmeno poi così lontano».

Per consolare questo straordinario vecchio bambino gli regaliamo le parole di Cesare Pavese ne «La luna e i falò»: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Massimo Romano



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