Europa, nostra sicurezza

Anche dopo la presentazione delle misure economiche del nuovo esecutivo e il suo esordio presso i principali partner all’interno dell’Eurozona, appare difficile valutare la sostenibilità finanziaria e l’accettabilità in sede europea del programma di Matteo Renzi in modo disgiunto dalle riforme istituzionali e dal ruolo della figura stessa del presidente del Consiglio e di ciò che questi politicamente rappresenta.

In innumerevoli sedi ci si sta infatti domandando perché mai la Commissione europea (e Berlino) dovrebbero consentire a Renzi ciò che nella sostanza non è stato consentito a Letta, e in effetti il giudizio sul realismo delle (per ora) promesse del governo dipende fondamentalmente da questo. Non si deve dimenticare, tanto per capirsi, che da anni la seconda economia dell’Eurozona, cioè la Francia, viaggia con un rapporto tra indebitamento e Pil ampiamente superiore al fatidico tre per cento, è ancora lontanissima dal pareggio strutturale previsto dal Patto di stabilità “rafforzato”, ma nessuno si sogna lontanamente di aprire contro di essa una procedura di infrazione per deficit eccessivo, tanto che pochi mesi fa il governo di Parigi, in evidente difficoltà sul fronte della politica economica, ha ottenuto senza particolari difficoltà una dilazione che sposta ulteriormente in avanti l’impegno al pareggio di bilancio.

Ora, qualche euroscettico militante potrebbe affermare che questa è esattamente la ragione per cui l’Eurozona non è il posto giusto per l’Italia, visto che in quella sede si fanno due pesi e due misure. In realtà non dovrebbe essere questa la reazione, se si considera che ovunque nel mondo i partner di una Unione (o di una Federazione) non vengono unicamente contati, ma anche e soprattutto pesati. Come se negli Usa ci si illudesse che il peso politico della California o di New York fossero analoghi a quelli del Maine o del Vermont…

La Ue e l’Eurozona, pur con tutti i loro difetti, non solo sono il posto giusto per l’Italia ma, piaccia o non piaccia, sono anche l’unica collocazione internazionale in grado di compensare le debolezze strutturali del nostro Paese. E non una Ue ideale, utopisticamente paritaria, ma proprio la Ue e l’Eurozona a trazione tedesca, quelle cioè che obbligano ad impegnarsi al consolidamento finanziario senza negare, una volta usciti dall’emergenza, la possibilità di comprare tempo offrendo in cambio riforme strutturali dell’economia e dell’architettura istituzionale del Paese.

Non più tardi di una settimana fa la Ue si è vista confermare, in quanto Unione e limitatamente al proprio bilancio, la tripla A dalla principale società di rating internazionale. Chi vagheggia una Unione paritaria, o addirittura una Eurozona senza la Germania, dovrebbe provare a pensare quale sarebbe il suo rating, e quale sarebbe la credibilità della Bce se al loro interno non fossero presenti i custodi tedeschi del rigore. E allo stesso tempo, chi considera l’euro un “crimine contro l’umanità” e vorrebbe l’Italia al di fuori di esso (salvo poi, con ammirevole coerenza, vagheggiare una sorta di Unione tra “Padania” e Baviera, non si sa bene con quale moneta) dovrebbe domandarsi a quali tassi il nuovo ipotetico Stato sarebbe in grado di finanziare il proprio debito, al di fuori dell’ombrello protettivo dell’Euro e della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi (e dai falchi della Bundesbank).

Detto questo, a Renzi verrà consentito ciò che non è stato possibile a Letta perché ciò è funzionale agli interessi dell’Unione, e segnatamente dei suoi azionisti di maggioranza. Tutto questo è ovviamente possibile perché Monti prima, e Letta poi, hanno tratto fuori il Paese dall’emergenza finanziaria e reso presentabili i conti, che a tutt’oggi presentano una proiezione del rapporto tra indebitamento e Pil intorno al 2,5 per cento per il 2014. Ma alla Ue non serve solo un’Italia con i conti in ordine, serve anche un’Italia competitiva, in crescita economica e un Paese che garantisca un contributo positivo all’approfondimento dell’Unione, quindi un Paese non guidato da euroscettici e populisti. Sarebbe infatti ben difficile proseguire nel processo di limitazione di sovranità se la terza economia dell’area euro fosse governata da forze politiche dichiaratamente contrarie all’Unione e alla moneta unica. Ma serve soprattutto un’Italia con un sistema politico che garantisca stabilità di governo e chiarezza nelle linee politiche. Impossibile dimenticare che Angela Merkel, in due anni e mezzo, si è dovuta confrontare con quattro diversi presidenti del Consiglio italiani, e tutti e quattro sorretti da maggioranze poco omogenee, estremamente rissose quando non del tutto incompatibili.

Quel che Renzi offre all’Europa per comprare tempo è innanzitutto una profonda riforma istituzionale del Paese che, attraverso la nuova legge elettorale e la revisione del Titolo V della Costituzione, conduca ad una maggiore chiarezza nella formazione delle maggioranze, ad una maggiore stabilità di governo e ad una crescita della produttività delle macchina istituzionale, attraverso il superamento del bicameralismo perfetto e soprattutto la profonda revisione di quella “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni che fa crescere a dismisura tempi e costi e blocca la realizzazione di opere essenziali per la competitività del sistema-Paese. Se Renzi cadrà o, come dice lui, si rivelerà un «buffone», non dipenderà tanto dai famosi 80 euro in busta paga a maggio, ma da un eventuale fallimento del cammino della legge elettorale e della riforma costituzionale. Tutto o quasi si basa su questo.

Quanto alla riforma del mercato del lavoro, un assetto che faccia crescere le opportunità per i giovani pagando eventualmente un maggior prezzo in termini di flessibilità non è certo sgradito a Bruxelles, a Berlino (e a Francoforte, casa Draghi), perché va nella direzione di creare un Paese maggiormente appetibile per gli investitori internazionali e quindi in grado di contribuire a trainare la crescita dell’Eurozona, che neppure la Germania da sola può fare. Anche il taglio dell’Irap e l’intervento sul cuneo fiscale vanno nella direzione di un “ecosistema” più favorevole alle imprese e alla creazione di posti di lavoro. Naturalmente la riduzione del prelievo fiscale sui redditi medio–bassi (quelli caratterizzati da una maggiore propensione al consumo) insieme alle misure per l’edilizia scolastica e il riassetto del territorio dovrebbero essere in grado di indurre una significativa crescita della domanda e quindi alzare l’asticella della dinamica del Pil nel secondo semestre del 2014 e soprattutto nel 2015. In particolare, il sostegno al settore delle costruzioni (particolarmente colpito negli ultimi anni dalla caduta della domanda interna e dei redditi spendibili) dovrebbe essere in grado di reagire abbastanza rapidamente anche in termini occupazionali, essendo caratterizzato da una elevata intensità di lavoro nell’ambito del suo processo produttivo.

Le coperture finanziarie ipotizzate, dalla spending review all’aumento della tassazione delle rendite finanziaria all’uso dei fondi europei, passando per il ricorso ad una parte del margine che residua tra il rapporto indebitamento/Pil previsto per il 2014 (2,5 per cento) e la soglia “invalicabile” del 3 per cento non sono, sul piano strettamente tecnico, tra le più solide. Ma è evidente che, se le misure di sostegno alla crescita dovessero rivelarsi in grado di provocare una significativa accelerazione della crescita, una parte significativa della maggiore spesa si finanzierebbe per via endogena grazie all’incremento spontaneo del gettito fiscale che ne deriverebbe.

Anche il pagamento dei debiti pregressi della pubblica amministrazione potrebbe rivelarsi possibile nei tempi promessi se a Bruxelles si chiuderà un occhio sul ruolo che avrà in tutto ciò la cassa depositi e prestiti, formalmente al di fuori del perimetro utile ai fini del calcolo del deficit pubblico. Si dirà che si tratta di finanza creativa, e in effetti non ne siamo molto lontani, ma una cosa è farla con i conti in ordine e per sbloccare il pregresso, una cosa molto diversa è usarla per rientrare nei parametri quando si è molto al di sopra di questi. Senza dimenticare che il pagamento dei debiti ai fornitori, immettendo cospicua liquidità nel sistema, dovrebbe compensare in parte le difficoltà che le imprese ancora incontrano sul fronte del credito bancario, agevolando gli investimenti. Non è quindi escluso che la Commissione continui a fare la faccia feroce sul rispetto del fiscal compact, ma accetti un’interpretazione “morbida” per quanto riguarda il pagamento effettivo di spese che in ogni caso, sul piano della competenza, sono già state contabilizzate.

Si dirà che Renzi sta combattendo i populismi dei pentastellati, della Lega e quant’altro con una buona dose di populismo e spettacolarizzazione che fa inarcare il sopracciglio a molta sinistra radical–chic. Vero, ma anche questo potrebbe essere in Europa un punto a suo favore. Un populismo “buono” e filoeuropeo in grado di combattere quello nichilista di Grillo, della Lega (e di Marine Le Pen) potrebbe essere, anche nella prospettiva delle elezioni europee e del semestre italiano di presidenza Ue, uno spot formidabile per Strasburgo e Bruxelles. Renzi: la faccia giovane e buona che viene dall’Europa periferica. Vedete un po’ voi…

Antonio Abate



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