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Un dinamismo e i suoi contiIl passaggio è brusco: dall’esperienza meditata e gradualmente costruttiva del governo Letta, maturata nella consapevolezza dei numerosi vincoli nazionali e internazionali, soprattutto a livello europeo, si è passati ad un movimentismo impegnato ma non privo di rischi dell’attuale presidente del Consiglio (quarto nel giro di 28 mesi). E’possibile, e ce lo dobbiamo augurare, che questo dinamismo giovi alla ripresa economica, ma non solo, del Paese. E’ intanto onesto riconoscere che i primi giorni sono andati oltre all’effetto annuncio, peraltro largamente utilizzato, per dare corpo a primi interventi concreti. La riflessione su questi ultimi porta a considerare i due ambiti nei quali essi si sono concretati, vale a dire quello fiscale e quello della regolazione dei rapporti di lavoro. L’intervento prevalente sull’Irpef rispetto a quello sull’Irap, con beneficio di 80 euro in busta paga per chi guadagna meno di 1.500 euro mensili, ovvero la scelta di alleviare il carico d’imposta soprattutto a vantaggio delle famiglie, risponde alla convinzione del suo positivo potere attivante sui consumi. Stime di accreditati centri studi sembrano dare conferma, quantificando tale effetto nella misura dell’incremento dello 0,4 per cento del prodotto interno lordo (Pil), su base annua. L’attuazione concreta della misura comporta un impegno annuo pari circa ai più volte richiamati e discussi 10 miliardi di euro l’anno, in realtà ridotti a 6,6 miliardi per il 2014 dal momento che l’entrata in funzione effettiva della misura inizierebbe da maggio. La somma è molto ingente e obbliga seriamente a considerare le possibilità di copertura, dal momento che il vincolo europeo a tenere il deficit al di sotto del 3 per cento è tuttora vigente. In realtà, di fronte all’impegno sta certamente l’onestà intellettuale di Renzi, supportata da stime che solo l’esperienza dimostrerà quanto troveranno effettiva verifica. In parte il reperimento delle necessarie risorse potrebbe derivare dalla crescita generata dalla sperata impennata dei consumi: la produzione ripartirebbe generando redditi che la fiscalità in parte assorbirebbe con i conseguenti benefici finanziari. Si tratta di una scommessa, fondata sulla propensione al consumo dei beneficiari, in parte condivisibile dopo molti mesi di astinenza forzata per la crisi, ma incerta nella sua quantificazione. Potrebbe ad esempio essere frenata da un senso di prudenza tale da indurre a risparmiare gli incrementi di reddito nel timore di difficoltà future, data la sostanziale incertezza del quadro generale. Per altra parte le risorse potrebbero derivare da una rinegoziazione del deficit con la Commissione europea, passando dal 2,6 per cento, al quale si è stati richiamati, al 2,8 per cento; ne potrebbero derivare 3,2 miliardi ai quali si aggiungerebbero i circa tre miliardi prevedibili dall’attuazione della spending review per il 2014. Sulla carta si è nella sfera degli eventi possibili; nella realtà gioca un margine di rischio legato anche alla farraginosità con la quale le decisioni assunte in sede di deliberazione politica trovano concretezza: occorre che non solo il premier, ma tutti gli artefici della catena degli adempimenti ministeriali gettino il cuore oltre la siepe. Al di là della pur necessaria attenzione verso la contabilità del reperimento delle risorse è importante ricordare che la produzione, anche quella che dovrebbe rispondere ai maggiori consumi, è ottenibile dalle imprese, che quindi devono poter essere nelle condizioni di operare positivamente. Questa considerazione invita a tener presenti altri punti delle scelte dell’attuale governo, ovvero la riduzione del 10 per cento dell’Irap, odiosa imposta fondata in ultima analisi sulla dimensione della spesa per il lavoro, il taglio del 10 per cento circa delle bollette attuali e l’incremento dell’imposizione sulle rendite finanziarie dal 20 al 26 per cento. Da quest’ultima imposizione dovrebbero derivare le risorse per il sostegno delle prime due linee di intervento. La problematica relativa va meditata con attenzione, perché se da un lato pare rispondere a vecchi assiomi (necessità di tassare i risultati economici della finanza, giudicati parassitari, per sostenere lo sviluppo e il benessere), dall’altro occorre considerare come detti benefici si generano. Oggi, infatti, il risparmio trova impiego in investimenti finanziari attuati da banche di investimento, il reddito delle quali è già tassato all’origine. Le cosiddette rendite (capital gains), quando va bene (il che negli ultimi anni non è) sono percepite dai risparmiatori, spesso identificabili in normali cittadini che hanno cercato di difendere i loro patrimoni, frutto di moderazione e sacrifici. La tassazione finisce per colpire proprio queste persone, che già hanno subito il bollo sul dossier titoli (oggi pesa per il 2 per mille), l’Iva sulle gestioni patrimoniali e, buona ultima, la Tobin Tax, risoltasi di fatto in un autentico ”flop” a dispetto di inappropriate aspettative. Quanto basta per allontanare il risparmio da questi impieghi, che in ultima analisi sostengono le attività produttive, e dirottarlo verso i Bot (esenti dagli aggravi), ovvero verso l’indebitamento dello Stato. E’ pur vero che il 26 per cento ricalca il 25 per cento vigente in Europa, ma in sistemi fiscali che, visti nella loro completezza, sono assai diversi e conducono ad imposizioni mediamente più leggere di quella operante di fatto in Italia. Occorre inoltre tenere conto che dall’imposizione delle rendite ci si attenderebbero 2,6 miliardi, il che, a conti fatti, significherebbe applicare l’aliquota su 40 miliardi di euro che appaiono al momento di là da venire. Anche su questo punto occorre pertanto un approfondimento, tale da mettere in campo tutte le variabili. Sul tema del lavoro, al momento sono indicati essenzialmente gli orientamenti di massima, rimettendo ad una maggior precisione in sede di legge delega. In ogni caso le linee indicate sono quelle volte a rendere nuovamente più accessibile e più semplice la flessibilità “buona” nei rapporti di lavoro: ne può derivare una nuova possibilità di accesso a questo mondo per i giovani, con prospettive di medio termine (trentasei mesi, di fatto rinnovabili con maggiore facilità), ma con qualche rischio di non superare la negatività del precariato, cosa che la riforma Fornero, oggi valutata negativamente con troppa facilità, aveva iniziato a fare. Il tema non è quindi risolto, anche se è da valutare positivamente l’eliminazione di ostacoli che di fatto impedivano di entrare in questo mercato. Come detto all’inizio, il passaggio è brusco, soprattutto per chi, come il sottoscritto, molto apprezzava l’approccio Letta; forse, però, uno scatto di giovinezza e magari di sano scautismo, in questa fase paludosa della situazione italiana, può essere salutata con favore. Almeno con il beneficio “di inventario”. Giovanni Zanetti
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