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Un Papa e il "suo" giornaleUn libro che racconta la storia di un quotidiano cattolico, immersa qua e là drammaticamente nella storia non solo di un Paese, l’Italia, ma della stessa Chiesa in un momento di forti cambiamenti sociali e religiosi, sotto la spinta di una secolarizzazione di stampo liberal e/o marxisteggiante che mirava a indebolire giorno per giorno i valori fondamentali del cristianesimo. Questo, in estrema sintesi, può essere il giudizio conclusivo sul volume «Paolo VI e “Avvenire”», scritto da Eliana Versace, docente di Storia della Chiesa contemporanea presso l’Università Lumsa di Roma, e pubblicato dall’editrice Studium (pp. 184, 16,50 euro). Un’opera estremamente documentata, frutto di un’indagine durata fra il 2008 e il 2013 su testimonianze scritte e conservate presso l’Archivio storico della Conferenza episcopale italiana e i due archivi delle Curie di Milano e di Bologna, le città in cui questa storia intreccia le complicate vicende di due quotidiani cattolici: «L’Italia» e «Avvenire d’Italia», che il 4 dicembre del 1968 uscirono per la prima volta unificati sotto il titolo di «Avvenire». Altre fonti sono gli archivi dei due giornali e quello dell’Istituto Luigi Sturzo, più il Fondo Vittorino Veronese. Il quotidiano milanese era nato il 25 giugno del 1912, aveva attraversato momenti difficili sia durante la Grande Guerra, sia dopo, subendo addirittura la violenza fascista: il 16 luglio 1923 fu attaccato criminosamente e ne ebbe incendiata la sede, con «ingenti danni finanziari». Nel 1938 fu aspramente criticato dal regime per aver pubblicato integralmente in prima pagina il discorso dell’allora arcivescovo cardinale Schuster di condanna delle leggi razziali, giudicate un’«eresia antiromana»; solo l’intervento di papa Pio XI ne evitò la chiusura. Nel dicembre del 1944, in piena Repubblica di Salò, le sue pubblicazioni furono sospese perché il ministro della Cultura popolare Mezzasoma lo riteneva «un pericoloso esempio di resistenza passiva». L’operazione della unificazione con «Avvenire d’Italia» era nata quando Giovanni Battista Montini era ancora arcivescovo di Milano (dove era giunto nel 1955) e poco per volta era stato impressionato dalla crescente insofferenza di una parte del cattolicesimo ambrosiano verso «L’Italia» diretta prima da mons. Ernesto Pisoni e poi, dal 1961, da Giuseppe Lazzati. I due direttori avevano dato al quotidiano due tendenze politicamente opposte. La prima, scrive la Versace, era ritenuta soprattutto dall’Azione cattolica, e particolarmente dalla Giac, «parziale e vicina alle posizioni della destra cattolica e conservatrice». La seconda, al contrario, era avversata perché Lazzati, «dopo una iniziale cautela, sposò col suo giornale la linea politica di centrosinistra espressa, nella Democrazia cristiana, prima da Fanfani e poi da Moro, sostenendone le scelte, e chiamando a collaborare a “L’Italia” alcuni dei giovani cattolici che avevano dato vita al periodico “Relazioni Sociali”, di chiare tendenze progressiste e sul quale Montini aveva espresso segni di disapprovazione». Questa linea lazzatiana faceva perdere man mano lettori al quotidiano e provocava proteste di autorità ecclesiastiche, come il vescovo di Novara Vincenzo Gilla Gremigni, il quale aveva accusato il giornale addirittura di «infedeltà ai principi cattolici» e aveva comunicato a Montini che «avrebbe rinunciato alla diffusione de “L’Italia” nella propria diocesi». Con i guai finanziari che ne sarebbero derivati. L’arcivescovo di Milano difese in un primo momento il quotidiano milanese, ma con il passare dei mesi era giunto a scrivere, nel febbraio del 1963, una lettera a Lazzati in cui criticava il giornale ricordandogli che «una tolleranza socialisteggiante favorisce da un lato una politica sempre più rischiosa, forse perfino imprudente, dall’altro disarma il retto giudizio sui valori morali e ideali dei cattolici e della pubblica opinione verso un socialismo tutt’altro che innocuo e inammissibile». Il 21 giugno del 1963 Montini viene eletto Papa, e Lazzati conserverà ancora per un anno la direzione de «L’Italia». A luglio del 1964 viene chiamato a succedergli l’allora vicedirettore del quotidiano, monsignor Carlo Chiavazza, che conduceva da anni una doppia vita giornalistica: a Milano e a Torino, dove continuava a dirigere «il nostro tempo», da lui fondato nel 1946. Don Carlo (che avrebbe diretto la testata fino al 1968, cioè fino alla sua fusione con «L’Avvenire d’Italia») «mutò da subito», nota l’autrice del libro, «l’impostazione del giornale, rinnovando la redazione. Con l’appoggio del nuovo arcivescovo, mons. Giovanni Colombo, rinnovò i collaboratori tra i quali non figurarono più gli esponenti del gruppo di “Relazioni sociali”, politicamente sempre più orientati a sinistra». Nel frattempo, quale era la situazione del quotidiano di Bologna, nato il primo novembre del 1896 con il titolo «L’Avvenire» mutato sei anni dopo in «L’Avvenire d’Italia»? Da una prima ispirazione «modernista», sotto lo stimolo della Lega democratica di Romolo Murri e con la contrarietà della Santa Sede, passò sotto la direzione più che trentennale (dal 1927 al 1960) sostenuta «con rigore e sobrietà da Raimondo Manzini, figura di assoluto rilievo nel panorama della stampa cattolica italiana». Passata senza troppi squilibrii l’epoca fascista, solo nel 1944 fu chiuso dal direttore stesso «pur di non sottostare alle pressanti imposizioni e alle ripetute vessazioni dello schieramento nazifascista», e le pubblicazioni vennero riprese dopo la guerra, quasi un anno dopo. Nel 1960 Manzini fu chiamato da papa Giovanni XXIII a dirigere «L’Osservatore Romano». A «L’Avvenire d’Italia» gli succedette il giovane Raniero La Valle su designazione del cardinale Giacomo Lercaro. Da quel momento, fino al 1968, si snoda una serie di interventi pro e contro la fusione dei due giornali, con la partecipazione di molti e illustri rappresentanti della gerarchia cattolica, dal Papa ai vertici della Segreteria di Stato e della Cei, e soprattutto, nel racconto che ne fa la Versace, i due arcivescovi di Milano e di Bologna, Colombo e Lercaro (sostenuto dall’allora suo vicario Dossetti) entrambi impegnati a opporsi all’unificazione, sia pure per motivi molto diversi fra loro. L’arcivescovo cardinale Giovanni Colombo non poteva sopportare l’idea che, unendo il quotidiano bolognese a quello milanese, sarebbe stata la diocesi ambrosiana a sopportarne le spese, diventate ingenti, come documentavano i relativi bilanci. Come egli scrisse, «”L’Avvenire” non ha più nulla da perdere, se mai può solo guadagnare; “L’Italia” ha ancora tutto da perdere e non è improbabile che affondi per sempre». Il cardinale Lercaro, in una commovente lettera a Paolo VI, con cui divideva un’antica amicizia; espresse a sua volta il suo «profondo dolore» per quanto si stava preparando e confidò che «se, quando lo scorso settembre Vostra Santità, con un gesto di immeritata fiducia, respinse le mie dimissioni dalla Sede Bolognese, io avessi potuto intravedere gli sviluppi di una azione, che pur seguivo non senza ansietà, io avrei insistito sulle dimissioni: preferivo morire, o almeno non essere io sulla cattedra bolognese, anziché, sedendovi, vedere ammainata una bandiera che i miei antecessori e io avevamo sempre sostenuto». Ma ormai non c’era più nulla fare. Dopo lunghe, ripetute, spesso angoscianti sedute in alto loco, il 4 febbraio del 1968 toccò a Paolo VI dare il definitivo «ordine» all’unificazione. Papa Montini si era fatto da anni paladino del «Quotidiano Cattolico Nazionale» come strumento indispensabile per combattere il frazionamento e l’indebolimento del pensiero cattolico in Italia, sottoposto (proprio partendo, grazie anche a un quotidiano cattolico apertamente “progressista”, da Bologna, la capitale della sinistra politica nazionale) a un’offensiva continua contro la Chiesa. Un’offensiva che proprio in quel fatale 1968 aveva raggiunto il suo apice di laicismo fortemente organizzato e accompagnato da tutta la grande stampa laica, contro la sua enciclica Humanae Vitae del 25 luglio. Anche Lercaro alla fine si arrese, sia pure «con il cuore in pianto». Raniero La Valle si dimise nell’agosto, spiegando che secondo lui non si poteva condividere l’ipotesi che la chiusura del giornale fosse stata provocata da un problema finanziario. Infatti, sostenne, «le difficoltà finanziarie avevano sempre accompagnato la vita dei giornali cattolici, e dell’”Avvenire d’Italia” in particolare, fin da quando nacque». Il che è effettivamente vero, e la nostra riflessione sul bel libro di Eliana Versace può chiudersi con una domanda: perché in Italia è così difficile far sentire ampiamente la voce dei cattolici attraverso i loro organi di stampa, sempre in condizioni minoritarie rispetto ai grandi media che dall’Ottocento in poi sono radicalmente laici, probabilmente anche perché sono da sempre nelle mani di gruppi economico-finanziari che dei valori evangelici tengono ben poco conto? Il libro si chiude con un capitolo dedicato alle vicende di «Avvenire» dal 1968 in poi, con la fine del pontificato di Paolo VI dieci anni dopo e i successivi pontificati di Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Francesco. Il “quotidiano dei vescovi” ha continuato la sua opera, sia pure come voce di una minoranza (dovette sopportare due grandi e coraggiose battaglie e due dolorose sconfitte referendarie su divorzio e aborto) in una società sempre più confusa, “liquida”, politicamente lontana dai valori cristiani e, oggi, sempre più divisa fra ricchi e poveri. Infine, un’«Appendice documentaria» contempla trenta scritti, di varia dimensione e modalità, firmati da autorità religiose o civili, direttamente coinvolte nella vicenda, fra le quali spicca monsignor Carlo Chiavazza, di cui ci permettiamo di pubblicare ampi brani. Beppe Del Colle
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