Edith Bruck, clandestina del mondo

Delle atrocità subite nei lager nazisti Edith Bruck, nata in un villaggio ungherese ai confini con l’Ucraina, ricorda sempre due cose che le sono rimaste stampate nella mente come scintille nel buio: la violenza di un aguzzino che la separa dalla madre per salvarla dalla schiera destinata subito alle camere a gas e il dono di un boccone avanzato da un altro guardiano infernale. Dopo tanti anni quel germoglio di umanità spunta in tutti i suoi libri, che volle scrivere in una lingua non sua, non solo perché nel suo Paese la censura non le avrebbe permesso di farlo, ma anche per rivendicare il suo distacco dalla parola “patria” e dai nazionalismi distorti che hanno permesso la tragedia della deportazione.

Da allora lei si è sempre sentita cittadina di un non luogo, una «clandestina del mondo», dice spesso, ammantata dal significato più profondo della parola laicità, quella che non si lascia contagiare dalla parte più nera di una qualsivoglia appartenenza religiosa, politica o di razza. Basta scorrere la sua imponente bibliografia per scoprire in ogni libro (romanzo poesia, sceneggiatura o traduzione) la favilla di un Dio «diviso in pezzettini fra le persone migliori». Ed è stato proprio questo desiderio di riappacificarsi con il mondo a farle superare il muro d’afasia di cui parlava con lei Primo Levi, quella paura di non essere creduti, quel senso di distacco, di diffidenza, di fastidio che tutti mostravano per i sopravvissuti allo sterminio.

Il dolore della memoria, l’ingiustizia del potere comunque inteso potevano essere attenuati solo alla luce di quella speranza, capace di trasformare anche quella immane tragedia in un terreno fertile, in una fabbrica di vita che poteva abbattere i muri tra uomini e religioni. Perciò il tema portante del suo nuovo romanzo, «Il sogno rapito» (Garzanti, pp. 200, euro 14,90), è quello della maternità, del “natale” quotidiano che continua ad annunciare il Verbo dell’amore universale, ricollegandosi al motivo di tutta la sua narrativa, quello del sangue fratricida, del «rispetto indistinto per ogni essere umano», filtrato attraverso la storia simbolica di una coppia alle prese con una separazione senza litigi, incruenta, dopo trent’anni di armonia.

I pensieri della protagonista lo attestano fin dalle prime battute, dove emergono in amorevole e materna fusione tre religioni: quella di Allah, che assume le spoglie di Layla che le ha portato via il marito, del Cristo, che il padre celebrava il 25 dicembre, e delle leggi di Mosè, che la madre le narrava come la più affascinante delle favole. Da una parte c’è Sara, ebrea, gravata «da quella massa oscura che s’era depositata in lei nell’adolescenza quando venne deportata e privata dei genitori, del fratellino, dei vestiti, dei capelli dorati, del cibo necessario, rischiando di morire di fame e di freddo. Aveva perduto anche il paese natio, dove i liberatori dal nazifascismo importarono il comunismo staliniano, e infine i suoi carri armati e ai rivoltosi contro il fautore del gulag, s’erano mischiati vecchi e nuovi reazionari e antisemiti».

Dopo quell’esperienza aveva trovato un equilibrio sfidando tutti i pregiudizi razziali, nella convinzione che donare e ricevere fossero l’esito naturale di ogni rapporto, ma all’improvviso il mondo le crolla ancora addosso e diventa solo moglie tradita, abbandonata dal marito solo per rincorrere la vita che sembra sfuggirgli, innamorato di una palestinese che l’avevo reso padre di una bambina e, soprattutto, privo di rimorso per aver privato Sara «della maternità agognata» e sempre negata.

Intorno a queste figure, cariche di simboliche funzioni narrative, Edith Bruck costruisce una storia che personifica pezzi di un territorio in cui oggi si incontrano e scontrano le possibilità di una nuova nascita, quella che annuncerà finalmente la parola Pace. Nella mente della protagonista del «sogno rapito» di Edith Bruck, infatti, continuano a ruotare pensieri che evocano la speranza dei Giusti: un credo universale, che possa riscattare la desolazione di lotte tra fratelli, riconoscendo le storture e le ostilità di ogni religione e di ogni governo, quelle che rendono impossibile la convivenza e giustificano oltraggi alla società civile: «Quella danza macabra di violenze quotidiane radicate come erbe velenose».

Frutti generati dall’albero del male sono per lei gli ebrei, i palestinesi, i musulmani, i cattolici, intesi come razze diverse e non come uomini con i loro pregi e i loro difetti. E se ne rende conto al culmine della sofferenza di moglie tradita, quando d’improvviso le viene in mente il motto di suo padre, ritagliato da un giornale e firmato Karl Kraus: «Il diavolo è ottimista se crede di peggiorare gli uomini». Perciò anche un’ebrea come Sara può considerare usurpatori i coloni insediati in terra palestinese, può condannare l’invasione del Libano, può trovare eccessivo lo scambio di un solo uomo ebreo con 1.023 uomini di diversa religione e può commuoversi entrando in una chiesa cristiana. La sua fede le pare come «qualcosa di inafferrabile, che spesso si presenta come un vuoto, una mancanza d’appoggio che mi toglie l’equilibrio e mi capita di avere nostalgia di un Dio sicuro, che cerco dentro di me come fossi io la sua casa».

Nella parte centrale del racconto, Sara trasforma la sua disperazione in coraggio e decide di incontrare Layla, la donna che le aveva portato via il marito e che la guarda come se fosse «un invasore, non si sente una donna che ha sedotto il marito di un’altra, ma una palestinese contro un’ebrea, e la bambina più che la sua bellezza e giovinezza, è il suo trionfo, la sua guerra vinta». Perciò si pone come uno scudo tra lei e la piccola Aurora, incapace di credere che la sua rivale è «un granello di sabbia nel deserto di pace».

La sua mente non riesce a comprendere che la sua religione è quella di un umano che crede nell’umano «senza usare l’abusato Padreterno», che cambia faccia ma è latore dello stesso messaggio che nessuno riesce più a leggere. Non capisce che nella desolazione di lotte tra fratelli lei si colloca tra i Giusti, aperti alla speranza di un credo universale e quella bambina, che riesce a tenere tra le braccia per un attimo, ha un nome, Aurora, che annuncia una nuova naturale fusione tra razze diverse.

Poi la storia che non riveliamo per intero si complica, assume le forme dell’enigma, del mistero, con un ritmo narrativo così incalzante da sembrare una corsa verso un imprevisto epilogo, che Edith Bruck sa raccontare con la delicatezza di un’ala che si poggia sulla coscienza imperfetta di ognuno di noi.

Giovanna Ioli

 



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016