L'anno di Francesco

Mercoledì 12 marzo, per la prima volta da un anno a questa parte, cioè da quando l’arcivescovo di Buenos Aires Mario Jorge Bergoglio è stato chiamato «dai confini del mondo» a vescovo di Roma e perciò Papa della Chiesa universale, dandosi un nome mai usato prima, Francesco, piazza San Pietro è rimasta vuota.

E’ questo il giorno tradizionalmente dedicato all’incontro con la gente (pellegrini, fedeli, turisti, bambini, malati, anziani, giovani), un mondo intero che corre dal Pontefice per sentire la sua parola, per rinsaldare la fede, ritrovare la speranza, per acclamarlo, applaudirlo, cercare di stringerli la mano, offrendogli una maglietta, scambiando con lui il bianco zucchetto, allungandogli un ciondolo, un rosario.

Mercoledì 12 marzo Francesco è ad Ariccia, una cittadina distante pochi chilometri, attigua a quella Villa dei papi su lago di Albano, Castel Gandolfo, che non ha voluto usare neanche per le ferie, così come non ha voluto usare le grandi stanze del Palazzo apostolico. Bergoglio sta facendo gli esercizi spirituali, pratica fondamentale nella spiritualità ignaziana, l’ordine religioso dei gesuiti cui Francesco, primo nella storia bimillenaria del papato, appartiene. La gente lo segue col pensiero, lo vede in quella piccola stanza della Casa Divin Maestro dei paolini, tra i boschi, mentre ascolta la predica di un semplice parroco (anche se di una chiesa al centro di Roma, al Campidoglio), don Angelo De Donatis. I fedeli percorrono la piazza, entrano nella maestosa Basilica e si uniscono nella preghiera a lui, a Francesco, che preghiere ha chiesto per fare bene questi esercizi spirituali. Lo rivedono mentre sale sul pullman con i cardinali, insieme a loro, né in elicottero, né in lussuosa Mercedes, e neppure nella modesta utilitaria che usa quando si sposta per Roma, anche se va al Quirinale in visita di Stato. Quando va altrove, come a Lampedusa o in Brasile o a Cagliari, si fa prestare auto di piccola cilindrata. E’ nel suo stile. Per primo dà l’esempio.

Così è Bergoglio. E’ sempre come il primo giorno, quando andò a portare i fiori alla Madonna, Salus populi romani, e passò al pensionato a regolare il conto di tasca propria. E’ il Papa che ha rifiutato la croce d’oro, le scarpe rosse, mantenendo quelle nere che le confeziona il calzolaio di Buenos Aires. E’ prete tra i preti, ora che sale sul pullman con la sua borsa con il breviario, il rasoio, come quando salì sull’aereo a Fiumicino per Rio de Janeiro. Un pullman e un altro per completare il gruppo di 83 tra porporati, qui in normale tonaca, vescovi, monsignori, semplici sacerdoti, quanti sono i suoi collaboratori nella Curia romana. Un tuffo di cinque giorni nell’eremo tra riflessioni, preghiere, forse qualche rimbrotto, certo un richiamo alla coscienza, almeno per quelli che in passato, anche nel recente passato, hanno scambiato la Chiesa per una corte (no, non c’è corte ma servizio), hanno tramato, hanno seminato zizzania, hanno fatto chiacchiere, gossip, hanno tollerato traffici, pedofilia, lobby, riciclaggio. E infine la Confessione. Perché anche il Papa si confessa, come egli stesso ha detto più volte, perché tutti siamo peccatori e non c’è peccato che non possa essere perdonato.

Passano davanti alla memoria, come in un film, questi primi 365 giorni di pontificato, durante i quali il popolo ha imparato a conoscere Bergoglio, Papa argentino (il primo in tutto il Sud America) con radici italiane, un Papa che dichiara candidamente di essere una persona normale, che «dorme, mangia, prega, ride, che ha i suoi amici», ai quali non raramente telefona. Ai suoi amici, ma anche a giornalisti, a suore, a persone che soffrono. E’ Francesco che disegna la Chiesa «dei poveri e per i poveri». Non ci sta a pensare due volte se deve concedere un’intervista. Non chiede di che “colore” è il giornale e quale fede professa chi lo intervista. Così illustra il suo verbo alla «Civiltà Cattolica», il prestigioso organo dei gesuiti, e si esprime ampiamente sulla razionalità della fede con Eugenio Scalfari, il fondatore di «Repubblica», che premette di non essere credente e di non essere alla ricerca della fede, ma di essere affascinato da Cristo. E non si nega all’altro grande quotidiano, «La Stampa», così come non si tira indietro di fronte ai giornalisti e alle loro domande sull’aereo di ritorno dal Brasile, anche su domande che potrebbero apparire scabrose, Ha fatto testo quella sui gay. Se uno è gay ma conduce una vita corretta, si comporta onestamente, chi sono io per giudicarlo?

E così si apre un grande capitolo sulla famiglia di oggi, quella investita dalla crisi dei rapporti, oltre che dei costumi, nonché materiale e morale. Quel che preme a Francesco è stabilire che il matrimonio è tra l’uomo e la donna e che i figli possano essere educati nella correttezza e nella fede. E così la Chiesa si rinnova, conosce una nuova primavera, si proietta verso il Sinodo di ottobre per tracciare un nuovo quadro della famiglia nella Chiesa e nel mondo. In un anno Francesco ha innovato molto, nell’immagine, ma soprattutto nella sostanza, nel profondo. La prestigiosa rivista americana «Time» lo proclama «persona dell’anno» e l’Accademia di Stoccolma lo candida al Premio Nobel, quel premio che volevano dare già a Giovanni Paolo II.

Ma non di riconoscimenti e premi ha bisogno Francesco. C’è già il riconoscimento dei fedeli, della storia. Basterebbe citare la grande e subitanea decisione di indire una Giornata di digiuno e di preghiera per fermare la guerra chimica e il progettato attacco alla Siria. Un’iniziativa anche questa senza precedenti, accolta e partecipata anche da non credenti. Non è possibile parlare di populismo, a proposito di papa Francesco, bensì di vero spirito pastorale. Di molte cose ha parlato Francesco in quest’anno. Di povertà e di ricchezza, di miseria e di culto del denaro, di perdono, di misericordia, nell’epoca in cui la Chiesa, dopo secoli, ha anche un Papa emerito. Non due Papi, non un antipapa. Vivono gomito a gomito in Vaticano, senza che il primo interferisca sul secondo. Francesco e Benedetto si abbracciano. Il Papa emerito ha consegnato al suo successore i dossier scottanti sul Vatileaks, gli ha ceduto una bozza di enciclica, la Lumen Fidei, la Luce della fede, che Francesco ha completato, esteso e firmato. Di suo ha fatto seguire l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, la Gioia del Vangelo. Un Papa al Soglio e uno emerito. Non si era mai visto. Potrebbe verificarsi anche in futuro, dice Francesco. Fino al Concilio un vescovo non andava in pensione. Oggi si dimette a 75 anni. I vescovi emeriti sono tanti. E i cardinali ottantenni non entrano in Conclave.

Un anno intenso, questo primo di papa Bergoglio, negli eventi, nei gesti, nelle decisioni. Spegne le 77 candeline del compleanno insieme ai bambini che gli hanno preparato la torta e offerto un maglione. Va in una parrocchia di periferia dove è stato allestito un presepe vivente e mette un agnello sulle spalle, come il Buon Pastore. Lava i piedi ai ragazzi carcerati. Visita un centro per i rifugiati. Fa distribuire 25 mila “Misericordine”, un rosario-medicina dell’anima. Non bastano. Bisogna ristampare. Libri e pubblicazioni inondano le librerie. Si moltiplicano i servizi televisivi. Nasce un settimanale a lui intitolato. Ha 12 milioni di seguaci su Twitter, più di Obama. Sì, è rivoluzione-Francesco. Rivoluzione nel segno della fede, della misericordia, della fiducia e del rinnovamento.

Antonio Sassone

 



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