Simenon e il romanzo americano

Subito dopo la guerra, Georges Simenon lascia la Francia per trasferirsi in America e ci rimane per dieci anni. E’ questo il periodo più felice e avventuroso della sua vita: da oltre un decennio è uno scrittore affermato e dal 1934 pubblica con Gallimard, il più importante e prestigioso editore francese.

Le ragioni di questo espatrio sono molteplici. Intanto il carattere dello scrittore, che ha sempre bisogno di cambiare e dopo un po’ non si sente a suo agio in nessun posto. Poi l’esperienza terribile della guerra, che ha prodotto milioni di morti e aspri conflitti ideologici. Simenon, estraneo all’impegno politico, è stato sospettato di collaborazionismo da Aragon e da altri intellettuali comunisti perché durante l’occupazione tedesca alcuni suoi romanzi sono diventati film prodotti dalla Continental, casa cinematografica in mano ai nazisti.

Per ottenere il visto di espatrio, si fa passare per inviato in una missione governativa «presso le case editrici americane e canadesi». Poiché i porti francesi avevano subito gravi danni bellici, alla fine di settembre del 1945 s’imbarca a Southampton per New York con la moglie Tigy e il figlio Marc di sei anni, portando con sé una trentina di bauli e di casse.

Simenon rimane affascinato dall’America, vista come il luogo della libertà e della democrazia: i bar, i ristoranti, gli alberghi, i motel, i grandi spazi tagliati da autostrade su cui corrono enormi automobili. In novembre si stabilisce con la famiglia vicino a Montreal, in una casa circondata da un paesaggio innevato di laghi e di boschi, ma va spesso a New York, dove ha alcuni amici. Per il suo lavoro di scrittore, e per tenere i contatti con gli editori, ha bisogno di una segretaria. La scelta cade su una canadese che conosce bene il francese, Denyse Ouimet, di venticinque anni. Il 5 novembre la invita a colazione in un costoso ristorante di Manhattan. Per lui è un colpo di fulmine: quella donna graziosa ma non bella, molto civetta, piccola e magra, lo coinvolge in una passione che racconterà in «Tre camere a Manhattan», scritto in una settimana nel gennaio del 1946, successo da oltre mezzo milione di copie vendute in Francia.

Nasce così un ménage à trois costellato da litigi e riappacificazioni in cui chi soffre di più è il piccolo Marc, affetto da attacchi di sonnambulismo. Dopo sei mesi si spostano in Florida, nel ’47 affittano un ranch in Arizona, nel ’49 si trasferiscono in California. Simenon si trova a suo agio sia nell’ambiente familiare, che si allarga quando arriva dalla Francia l’affezionata governante Boule, sia fuori, dove fa amicizia con sceriffi e allevatori, va a cavallo, gioca a golf, pesca le trote. Quando Denyse rimane incinta, Simenon divorzia da Tigy e la sposa. Nel ’49 nasce Johnny.

L’inquieto scrittore, che nella sua lunga vita ha cambiato casa più di trenta volte, nel 1950 si trasferisce a Lakeville nel Connecticut. Acquista Shadow Rock Farm (la fattoria all’ombra della roccia), una ex fonderia del ‘700 con una ventina di stanze, circondata da un vasto terreno con ruscelli abitati dai castori. Ci rimane cinque anni, fino al marzo del ’55, quando lascerà definitivamente l’America. E’ questo il periodo più felice e tranquillo della sua vita: ha una bella casa, una moglie e tre figli (Tigy e Boule sono sistemate in un’altra casa a poca distanza), dopo la nascita dell’adorata Marie-Jo nel ’53, lauti guadagni e una crescente fama letteraria. Nel 1950 esce in Francia «Le cas Simenon» di Narcejac, che colloca lo scrittore belga a un livello superiore rispetto a Camus, e lo stesso Gide afferma che «La vedova Couderc» (1940) è più bello de «Lo straniero» (1942). In America tra i suoi ammiratori ci sono Henry Miller, Thornton Wilder, Anaïs Nin, Raymond Chandler e Faulkner, che afferma: «Leggo Simenon perché mi ricorda Cechov».

Nel periodo californiano frequenta Hollywood, diventa amico di Charlie Chaplin, che rivedrà in Svizzera negli ultimi anni della sua vita quando saranno vicini di casa, e nel ’48 esce il film «L’uomo della Tour Eiffel», con Charles Laughton che interpreta Maigret.

Nel decennio americano 1945-‘55 Simenon vende tre milioni di copie all’anno, passa da Gallimard a Presses de la Cité, fondata dal danese Sven Nielsen, che gli propone un contratto strepitoso (15 per cento fino a 20 mila copie, 20 per cento oltre, e 300 mila franchi di acconto). Scrive 22 Maigret e 27 romans durs, tra cui alcuni capolavori memorabili: «Lettera al mio giudice» (1946), «La neve era sporca» (1948), «I fantasmi del cappellaio» (1949), «Persiane verdi» (1950), «La morte di Belle» (1952), «La scala di ferro» (1953), «L’orologiaio di Everton» (1954).

Tra questi c’è anche «I fratelli Rico», scritto e pubblicato nel 1952, tradotto da Mondadori nel 1958, anno in cui esce anche il film omonimo con Richard Conte, e ora riproposto in una nuova e bella traduzione di Marina Di Leo (Adelphi, pp. 172, 18 euro). Secondo il suo biografo Eskin, questo è «quasi certamente il romanzo “americano” di Simenon che ottiene il successo più clamoroso». Ambientata in Florida, perfetta nella struttura e nel disegno dei personaggi, è una gangster-story che non ha nulla da invidiare ai polizieschi americani, meno violenta di quelle di Spillane, più sottile nell’introspezione psicologica rispetto a quelle di Hammett e di Chandler.

I tre fratelli Rico sono figli di un immigrato siciliano ucciso durante un regolamento di conti: Eddie è un boss di provincia che ha un negozio di frutta, verdura e prodotti alimentari come copertura, suo fratello Gino è un killer e Tony, il più piccolo, fa l’autista nelle rapine. Eddie, che controlla night-club, bar e sale da gioco, viene incaricato dal grande capo di ritrovare il fratello minore che ha sgarrato, perché si è sposato senza chiedere il permesso e il cognato potrebbe spifferare tutto alla polizia. Lasciamo al lettore il piacere di scoprire come va a finire la storia.

L’elogio più bello per Simenon è quello del suo amico Jean Renoir, figlio del grande pittore Auguste, regista de «La nuit du carrefour» (1932), primo film tratto da un suo romanzo, con il fratello Pierre nel ruolo di Maigret: «Dio ti ha creato perché scrivessi come creò mio padre perché dipingesse. E’ questa la ragione per cui entrambi lo fate così bene».

Massimo Romano

 



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