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Le stelle "proibite" alle donneL'astronomia deve molto alle donne, ma pochi lo sanno. La prima fu Ipazia nel quarto secolo dopo Cristo: astronoma e filosofa neoplatonica, occhi rivolti al cielo nella colta Alessandria d’Egitto, abbracciò il sistema di Aristarco, ovvero un sistema eliocentrico, rivelando degli errori nel calcolo di Tolomeo. Cosa che le costò molto cara. A lungo dimenticata, è “tornata di moda” dopo il film «Agorà» di Alejandro Amenábar sull’intolleranza religiosa, presentato fuori concorso a Cannes nel 2009. Oggi Ipazia è simbolo della libertà di pensiero. Molte altre donne hanno poi contribuito alla conoscenza del cielo: da Carolina, sorella di William Herschel, a Henrietta Leavitt, che scoprì il "metro" per misurare le grandi distanze tra le galassie, a Jocelyn Bell, premio Nobel mancato (leggi rubato). E poi la grandissima Margherita Hack, scomparsa a 91 anni nel 2013, prima donna in Italia a dirigere un osservatorio astronomico (quello di Trieste, che sotto la sua direzione ha ottenuto rilevanza internazionale), membro dell’Accademia dei Lincei e della Royal Astronomical Society è considerata la “madre nobile” della divulgazione scientifica nel nostro Paese. Lo dobbiamo a lei se oggi l'Istituto nazionale di astrofisica italiano può vantare una rappresentanza femminile pari al 32 per cento: nel mondo, per quota rosa, l'Italia è al terzo posto, dopo Argentina e Ucraina. In America la percentuale scende al 14 per cento, in Giappone al 6,4. Discorso diverso se si guarda alla carriera: su 89 cattedre universitarie di astronomia, solo 10 sono tenute da donne italiane. Anche in Europa la media è bassa, ma si aggira comunque intorno al 18 per cento. Segno che c’è ancora molta strada da fare per raggiungere la parità di genere. A raccontare una storia dell’astronomia al femminile (e non solo) curiosa e avvincente è stato Piero Bianucci ospite, giovedì 27 febbraio, a Torino, dell’associazione Pro cultura femminile. Il trucco? «Svelare le vicende che stanno dietro a grandi uomini e grandi scoperte, fra stelle e questioni di cuore», ha spiegato davanti a una sala gremita dell’Archivio di Stato. Scrittore e giornalista scientifico, Bianucci è editorialista a «La Stampa», quotidiano dove per venticinque anni ha diretto il settimanale «Tuttoscienze», e stimatissimo collaboratore del «nostro tempo». Ha scritto una trentina di libri di divulgazione dedicati all'astronomia, alla questione energetica, alle scienze della terra. Dal 1985 organizza i «GiovedìScienza». Ha anche un pianeta che porta il suo nome, cosa non da tutti: nel 1992 la International Astronomical Union ha assegnato il suo nome al pianetino 4821, per la sua capacità di avvicinare l’astronomia e la scienza con parole semplici a tutti. E infatti la sua carrellata sulle donne astronome (e sugli uomini) ha incuriosito e divertito grazie alle storie e agli aneddoti (spesso al limite del pettegolezzo) che stanno dietro alle vite ufficiali degli scienziati che hanno scritto la storia dell’astronomia. Racconti che Bianucci ha raccolto con humor e rigore scientifico nel suo libro «Storia sentimentale dell’astronomia». I filosofi greci, ha spiegato all’inizio della sua conferenza, diedero un contributo decisivo allo studio degli astri. Proponendo, per fare solo un esempio, un universo eliocentrico molti secoli prima di Copernico. Emblematico il caso di Ipazia, che visse ad Alessandria tra il 370 e il 414 d.C. «Nel celebre affresco di Raffaello raffigurante la Scuola di Atene, Ipazia è l’unica figura che ci guarda dritto negli occhi. Quasi fosse una sfida. Un atteggiamento che, sappiamo, le costò molto caro…». Ipazia, che trascorreva intere notti ad osservare le stelle (passione ereditata da suo padre e maestro Teone), donna colta e molto amata dai suoi studenti, sostenitrice della teoria eliocentrica, fu osteggiata dal vescovo Cirillo». Ipazia fece una brutta fine: lapidata perché pagana, vittima del conflitto tra fede e ragione. Dopo Ipazia nella storia della scienza al femminile c’è un vuoto di mille anni. «Scavalcato il Medioevo», ha spiegato Bianucci, «le donne tornano ad occuparsi di astronomia nel tardo Rinascimento. Ma almeno nei primi tempi, le astronome sono perlopiù sorelle, mogli e compagne di grandi scienziati: Sofia Brahe (1559-1643), sorella di Tyco; Caterina Heved (1646-1693), seconda moglie di Johannes; Maria Kirch, moglie di Kirch; e infine Alessandra Bocchineri, ultimo amore di Galileo». Racconta ancora Bianucci che si è appassionato alla vicenda della giovane, colta e raffinata donna di corte: «Quando, nell’estate del 1630, si innamora di Alessandra, Galileo ha 66 anni e molti acciacchi. Lei è una bella trentenne, ma non le manca l’esperienza: due mariti l’hanno già lasciata vedova, ha frequentato la corte ducale di Mantova, è stata al seguito di Eleonora Gonzaga, ha vissuto a Vienna. Con Alessandra Galileo scopre l’attrazione dell’intelligenza femminile. E’ lei ad aiutarlo nelle segrete stanze di Arcetri, la casa del confino». L’amore tra il vecchio scienziato e la giovane donna è tutto intellettuale. «Alessandra subisce il fascino di Galileo, ma saggiamente si ritrae per evitare uno scandalo che sarebbe stato pericoloso per entrambi. Galileo insiste nel chiederle incontri. Il rapporto va avanti per qualche tempo, poi, minacciato dai pettegolezzi, si attenua. A pochi giorni dalla morte, Galileo le invia un invito estremo, che lei respinge con gentile imbarazzo, appellandosi alle maldicenze che li avevano allontanati. Galileo le risponde lo stesso con una lettera». E’ il Natale del 1641, l’ultimo di Galileo: si spegnerà quindici giorni dopo. Passano i secoli, le donne continuano a studiare gli astri, anche con straordinari risultati, ma il loro riconoscimento tende a rimanere marginale. Bianucci con un salto di tre secoli, siamo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, racconta la storia incredibile di Annie Cannon («Ideatrice di una delle più diffuse classificazioni delle stelle, il suo metodo è tuttora in uso») e della collega Henrietta Leavitt («Pose le basi per misurare le grandi distanze tra le galassie») che vengono ricordate ancora oggi come le “ragazze dell’harem” di Edward Pickering, direttore dell’Osservatorio astronomico di Harward dal 1877. «L’harem», racconta Bianucci, «consisteva in una ventina di giovani ricercatrici, pagate pochi centesimi l’ora, soprannominate le “calcolatrici”, perchè passavano il tempo a misurare e catalogare la luminosità delle stelle nelle fotografie dell’Osservatorio». Stessa sorte per l’astrofisica Margaret Burbidge, classe 1919 (che Bianucci ricorda ancora «mentre saltava sul telescopio più grande del mondo superando oltre un metro di distanza e cinque di vuoto sotto i piedi») e per Vera Rubin (1928), la dark lady per i suoi studi sulla “materia oscura”. «Vera era un’astronoma rispettata, tuttavia non era consentito né a lei né ad altre donne accedere al telescopio di 5 metri di Mount Palomar», dice Bianucci. «Motivo? L’edificio aveva un solo gabinetto, e naturalmente era per uomini. I moduli per chiedere tempo di osservazione mascheravano il veto sotto un’avvertenza piuttosto vaga: “A causa della limitazione dei servizi non è possibile accettare domande presentate da donne”. Bisogna aspettare l’inverno 1965 perché Vera venga ammessa. Nella sua prima notte di osservazione avvita una silhouette femminile accanto a quella maschile sulla porta dell’unico gabinetto…». Il tabù è svelato e infranto. Da quel momento le donne vengono ammesse al supertelescopio di Mount Palomar. Uomini e donne si pongono le stesse domande scientifiche, come ha raccontato Bianucci, hanno gli stessi sogni e anche le stesse ambizioni, ma sulla loro strada non incontrano gli stessi ostacoli. Per il gentil sesso, neanche da dire, la strada è tutta in salita. Come dimostra la storia di Jocelyn Bell-Burnell. «Ancora studente di Astronomia», spiega Bianucci, «durante la tesi di dottorato, Jocelyn scopre i pulsar con un radio telescopio. Il suo relatore di tesi, il professor Antony Hewish, boccia la scoperta, deridendola addirittura, e vieta alla giovane ricercatrice di accedere al grande telescopio per scrutare più da vicino le stelle collassate». Un giorno, per caso, Jocelyn scopre che le sue ricerche sui pulsar erano state addirittura registrate da un pool di professori. Risultato? Il Nobel andrà al professor Hewish. Un premio rubato. Fa allora piacere sapere che ai giorni nostri, Jill Tarter, portabandiera della ricerca di extraterrestri intelligenti, una vita ad “ascoltare” le stelle nelle vicinanze del sole, che ha ispirato il personaggio interpretato da Jodie Foster nel film «Contact», è stata inserita da «Time» tra le 100 personalità più influenti del mondo. Segno che qualcosa, forse, sta davvero cambiando. Da quando Jill ha iniziato a studiare le stelle molto è cambiato: adesso sappiamo che il nostro Sistema solare non è un’eccezione. Dice Bianucci: «Le stelle dell’universo sono almeno 10 alla 22, diecimila miliardi di miliardi, forse in gran parte accompagnate da pianeti come il nostro: le poche migliaia “ascoltate” finora sono perciò un campione irrisorio... E tornano le stesse domande degli antichi: chi siamo? dove andiamo? Siamo il terzo pianeta, quello azzurro, nel sistema solare. Ma oggi sappiamo che nella nostra galassia ci sono 100 miliardi di stelle e, ancora, 100 miliardi di galassie…». La verità, e la bellezza dell’astronomia, conclude Bianucci, «è che cerca risposte sulla storia dell’universo, ma racconta da vicino la storia dell’uomo». Cristina MAURO
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