Sorrentino, talento e coraggio

Quanto e come può essere utile, al cinema italiano, la consegna dell’Oscar per il miglior film straniero a «La grande bellezza»? E’ questa, subito dopo la vittoria della pellicola di Paolo Sorrentino alla 86ª edizione degli Academy Awards di Los Angeles, domenica scorsa, la domanda che tutto il cinema italiano si pone, con molte speranze e qualche timore.

Le speranze sono legate all’effetto traino che l’Oscar a «La grande bellezza» porta certamente con sé, un’”attrazione speciale” che il film del regista napoletano è stato in grado di suscitare sui 6 mila giurati dell’Academy e, prima ancora, sul pubblico nazionale (oltre 7 milioni di euro d’incasso al botteghino italiano) e internazionale (oltre 2 milioni di dollari rastrellati al solo box office statunitense dall’uscita del film nelle sale, il 15 novembre). Era da quindici anni, dal 1999, dai tre Oscar a «La vita è bella» di Roberto Benigni, che il nostro Paese non vinceva la preziosa, dorata statuetta. Cosa significhi la vittoria di un Oscar, in termini di ricadute economiche dirette, è facilmente immaginabile: l’immediata riproposta del film nelle sale, i successivi passaggi televisivi ben remunerati, le vendite massificate di dvd e blue-ray. Logico, quindi, sperare che il successo de «La grande bellezza» generi di riflesso un felice cortocircuito, un nuovo fermento e nuove energie in tutti i settori produttivi e artistici cinematografici italiani.

Nelle parole colme di misurata soddisfazione, pronunciate a caldo da Sorrentino al termine della “notte delle stelle” di Los Angeles, sono già evidenti le possibili, allargate ripercussioni di questo meritato (ma non scontato) trionfo, giunto peraltro dopo una entusiasmante sequenza di riconoscimenti ottenuti in mezzo mondo e sulla scia dei giudizi largamente positivi di testate come «Le Monde», «New York Times», «Variety»: «Spero che questo film e questa vittoria siano una porta aperta affinché il cinema italiano diventi più cinema per il mercato internazionale». Per uscire dai ristretti confini territoriali, però, e piacere al resto del mondo, in primis agli americani, bisogna lavorare su sceneggiature accattivanti, su storie universali, raccontandole sul grande schermo con uno stile pieno, maturo, personale. Bisogna possedere, cioè, molto talento e tanto coraggio. Qualità che a Sorrentino non mancano affatto. E non solo da oggi.

L’Oscar a «La grande bellezza», in effetti, al di là delle interpretazioni sociologiche, alcune delle quali francamente fuorvianti, e delle robuste dinamiche di marketing, adottate per la promozione a largo spettro del film in terra americana, è e resta, prima di tutto, una questione cinematografica. Non è un caso che, sul palcoscenico del Dolby Theatre, lo scorso 2 marzo, il regista partenopeo abbia indicato tra i suoi debiti artistici e le sue fonti d’ispirazione, insieme a Maradona e ai Talking Heads, Martin Scorsese e soprattutto Federico Fellini. Al regista riminese Sorrentino è legato da una concezione della settima arte quale territorio di esplorazione visionaria e surreale, da uno sguardo che, partendo dall’osservazione acuta della realtà, arriva a deformarne i tratti, alimentandone le suggestioni ed espandendone i riverberi in un ritratto complessivo audace ma evocativo, pungente ma partecipe. Ne «La grande bellezza», l’abbiamo scritto fin dalla presentazione del film al Festival di Cannes, lo scorso maggio, pulsano forte gli echi de «La dolce vita»: il protagonista, un cronista mondano che scrive per un giornale di gossip, Jep Gambardella (interpretato magnificamente da Toni Servillo), scrittore in gioventù di un solo, fortunato romanzo, riporta immediatamente alla memoria il Marcello Rubini interpretato da Marcello Mastroianni, giornalista insoddisfatto che si occupa di servizi scandalistici ma coltiva l'ambizione di diventare scrittore; il contrasto stridente tra il passato nobile e maestoso di monumenti e palazzi di Roma e il presente squallido e decadente di un’umanità prigioniera del proprio piacere è la cifra narrativa che «La grande bellezza» ha ereditato, senza mediazioni, dal capolavoro felliniano; la mobilità della macchina da presa di Sorrentino di spostarsi dalla vacuità cafona di una certa capitale notturna all’introspezione, alla ricerca di un senso nelle vite dei tanti, stravaganti personaggi che popolano la Città eterna, trova una sua precisa giustificazione nelle stesse traiettorie esistenziali seguite, più di cinquant’anni prima, da Fellini; e il confronto irrisolto tra sacro e profano, substrato indispensabile sia a «La grande bellezza» che a «La dolce vita», consente di accentuare le fragilità dei personaggi di entrambi i lungometraggi, con l’arrivo dell’anziana e sofferente suora, nella pellicola di Sorrentino, a fare da detonatore alle coscienze appannate dei protagonisti, mettendoli tutti di fronte alla necessità di compiere scelte responsabili.

Chi ha amato «La grande bellezza», insomma, ha ritrovato nei suoi fotogrammi i segni tangibili di un linguaggio cinematografico noto e ammirato, sontuoso e barocco. Sono le stesse ragioni per le quali in molti, anche all’interno della stampa italiana, hanno criticato aspramente il film di Sorrentino, infastiditi da troppa ambizione formale e da un “calco” (giudicato forse irrispettoso) de «La dolce vita». Quanti, però, di quegli stessi critici, ora applaudono all’Oscar attribuito a «La grande bellezza»? Certo, come «La dolce vita» anche il film di Sorrentino ritrae una società in decomposizione attraverso una consapevole dispersione narrativa, senza cioè una rigorosa, consequenziale scansione delle vicende. Ma è proprio qui, se si superano le riserve di una presunta, irriguardosa “filiazione felliniana”, che affiorano il talento e il coraggio di cui facevamo cenno poco fa: non avere paura di accostarsi ad un mito del cinema, vincitore di cinque Oscar (per «La strada», «Le notti di Cabiria», «8½» e «Amarcord», oltre al premio alla carriera nel 1993, pochi mesi prima della morte), per ripercorrerne le tracce ben marcate con occhi nuovi, con uno sguardo che trae forza dal passato per leggere con più lucidità il presente. Come ha detto Martin Scorsese, complimentandosi con Sorrentino, «La grande bellezza» è un’opera «che affronta questioni e temi morali del mondo contemporaneo in modo diretto: il tempo che passa e i sogni di gloria che svaniscono sono dilemmi umani e universali».

Il timore del mondo cinematografico italiano, invece, è legato alle carenze croniche del suo stesso, specifico settore (specchio delle inconcludenze del Paese), a quella incapacità di “fare sistema” e al procedere per solitari, talvolta straordinari individualismi, punte di un iceberg destinato (per mentalità, inettitudine, pigrizia, convenienza, ritrosia a ogni cambiamento) a restare sott’acqua, invisibile, inesistente. A sollevare entusiasmi sullo stato di salute del cinema italiano aveva già provveduto, nel 2008, il doppio successo al Festival di Cannes di un altro film di Sorrentino, «Il divo», e di «Gomorra» di Matteo Garrone, che si erano aggiudicati rispettivamente il Premio della giuria e il Gran premio della giuria. Da quella duplice vittoria non erano seguiti, però, sostanziali “ristrutturazioni” in senso industriale del nostro comparto cinematografico, al di là di tante buone intenzioni.

Ma in un Paese che spera di cambiare senza in realtà organizzarsi strategicamente per il cambiamento, non è facile “fare sistema”, soprattutto quando, come ha detto un altro illustre premo Oscar, Dante Ferretti, scenografo di Scorsese da più di vent’anni e, prima ancora, collaboratore di Fellini e Pasolini, «oggi non ci sono più i produttori di un tempo, gente che metteva la faccia ma anche i soldi, senza stare ad aspettarli dalla distribuzione o dal ministero, anche perché con la crisi il ministero darà sempre meno denaro al cinema». «Quando Fellini vinceva i suoi quattro Oscar», ha aggiunto Ferretti, «da Cinecittà uscivano 300 film all’anno, oggi sono molto meno». Chissà che la ventata d’aria fresca de «La grande bellezza» non possa davvero sollevare la polvere che ricopre ciò che resta del nostro glorioso cinema. Non sarà facile, ne siamo certi. Ma dobbiamo comunque provare a crederci.

Paolo Perrone

 



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