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Piemonte in costante declinoC’è un innegabile punto di partenza: l'Italia ha minor peso nell'economia europea e il Piemonte pesa sempre meno in quella italiana. I dati parlano chiaro: trent’anni fa il Pil piemontese era il 10 per cento di quello nazionale, oggi vale il 7,5. L'odierno Pil pro capite regionale si situa nella media italiana (che risente però del Mezzogiorno, più debole del Nord), mentre un tempo le era superiore. Se in cinque anni di crisi l'Italia ha perso 8 per cento di Pil, il Piemonte sconta una riduzione del 10,4 e la provincia di Torino addirittura dell'11,6. In buona sostanza, nonostante alcune punte di eccellenza, la nostra regione è segnata da un innegabile trend negativo. Un declino reso d’altronde più eloquente dal fatto che, negli ultimi quindici anni, Torino ha perso la sede Telecom, il centro strategico delle sue due storiche banche e adesso vede allontanarsi anche la Fiat. Come fronteggiare questo declino? Quali strade battere per riaprire una nuova fase di sviluppo? Domande che sono state un po' il filo conduttore della presentazione, a Torino, presso la fondazione Donat Cattin, del libro dell'ex sottosegretario alle Infrastrutture, Bartolomeo Giachino, «Logistica e trasporti, per il cambio di passo del Paese» (ed. Publitrans) cui hanno partecipato l’economista e presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa-San Paolo, Gian Maria Gros Pietro, il presidente dell’Osservatorio della Torino-Lione, Mario Virano, e il vicepresidente della Regione, Gilberto Pichetto. Unanime il giudizio che, per avviare una nuova stagione di crescita, occorra battere la strada della conoscenza, puntando su ricerca, innovazione e tecnologie d’avanguardia. Il nostro tessuto produttivo ha bisogno di rimettersi in gioco seguendo un percorso che altri hanno già intrapreso con successo e sul quale dobbiamo incamminarci senza indugi. «Del resto», ricorda Gros Pietro, «non è la prima volta che Torino è chiamata a voltare pagina. E' già accaduto in passato, negli ultimi decenni del XIX secolo, quando, perso il ruolo di capitale del regno, la nostra città dovette cambiar pelle reinventandosi totalmente nel segno dell'industria: dapprima quella tessile, seguita poi da quella meccanica e dell'automobile. La svolta cui siamo chiamati oggi si deve necessariamente fondare sulla valorizzazione delle risorse umane, sul potenziamento della logistica e sull'apertura verso nuovi mercati. Sarebbe arrischiato cedere alle sirene localistiche dell'autoconsumo e di un'economia rinchiusa in se stessa, vagheggiando magari un illusorio modello di decrescita che, a differenza di quanto pensano i suoi sostenitori, non si rivelerebbe affatto felice, soprattutto per le classi più disagiate». Ulteriori elementi dello sviluppo sono i trasporti, la logistica e le infrastrutture, altrimenti il Piemonte, penalizzato dalla sua periferica posizione geografica, si troverà marginalizzato rispetto alle grandi direttrici di traffico. Del resto, che le grandi opere siano il miglior antidoto contro la decadenza lo mostra, ancora una volta, la nostra storia. Attorno al 1870, prima dell’apertura dei grandi trafori, il reddito pro capite italiano era un quarto di quello britannico e un terzo di quello francese. Un distacco praticamente colmato nei decenni successivi proprio grazie alla crescita economica indotta anche da quelle infrastrutture, che spalancarono le porte dell'Italia ai traffici e agli investimenti europei, mettendo il porto di Genova in concorrenza con quello di Marsiglia. «Anche oggi», sottolinea Picchetto, «servono nuovi canali di sviluppo, poiché non si può certo pensare di basarci solo sul pur meritevole comparto enogastronomico. Certo, occorre un'Italia lungimirante come quella che, a fine Ottocento, pur di aprirsi all'Europa, si sobbarcò i due terzi della spesa del traforo del Gottardo, anche se neppure un metro del tunnel era sul nostro territorio». Oggi come allora si tratta di inserirsi nelle direttrici di traffico, convogliando verso il nostro Paese i flussi provenienti dalla Gran Bretagna e dalla penisola iberica, attraverso un'efficiente rete ferroviaria capace di utilizzare treni lunghi anche un chilometro, realizzando notevoli economie di scala nel trasporto di merci e materiali. Un sistema su rotaia, tra l'altro, assai meno inquinante di quello su gomma e dunque a basso impatto ambientale nonché foriero di ingenti risparmi energetici. Si comprende allora pienamente il senso dei quattro corridoi europei definiti nel 2011, che permetteranno di portare il traffico su rotaia al 30 per cento entro il 2030 e al 50 entro il 2050. Tre di questi corridoi sono assi Nord-Sud: Sempione, Brennero, Tarvisio. Il quarto è quello Est-Ovest, dall’Atlantico agli Urali, che attraversa la Pianura padana e la cui chiave di volta è la Torino-Lione. L'obiettivo è intercettare quei flussi di merci che, in mancanza di questa corsia transpadana, si collocherebbero ben più a Nord, sull'asse Strasburgo-Monaco-Vienna, bypassando totalmente il nostro Paese. «Una prospettiva per noi esiziale», spiega Virano, «che purtroppo non viene compresa appieno nelle sue nefaste conseguenze. Equivoci che bisognerebbe dissipare e che invece alimentano le incomprensioni. Gli oppositori della Torino-Lione, più che parlare di irreversibili danni ambientali, adesso si soffermano infatti sui costi della linea, affermando che era meglio destinare altrove le risorse; un argomento che, a ben vedere, può applicarsi a qualsiasi decisione di spesa. L'altra tesi è quella dell'inutilità dell’opera, poiché la quantità di merci che dovrebbe transitare nel nuovo traforo non riuscirà mai a ripagare il costo sostenuto. E per dar credito a questo ragionamento viene sottolineata la riduzione di traffico che in questi ultimi anni ha caratterizzato l'attuale tratta. In effetti questa flessione si è realmente registrata, ma per un motivo esattamente opposto a quello su cui insistono i “no-Tav”. In buona sostanza, il traffico in val Susa è calato non già per un prossimo esaurimento degli scambi commerciali, ma a causa invece della sola presenza della vecchia linea, ormai incapace di reggere i ritmi imposti dai nuovi standard di trasporto rotabile e dunque estremamente costosa nell'utilizzo. Naturale, quindi, che gli operatori abbiano provvisoriamente spostato i flussi verso direttrici alternative, pronti però a tornare da noi quando ci sarà una linea ferroviaria competitiva». «La nuova linea», ha concluso Gros Pietro, «non soltanto è utile alla nostra economia, ma risulterà anche un formidabile segnale per il Paese, divenendo il tangibile esempio che in Italia si riescono a portare a termine i grandi interventi. In caso contrario diverrebbe palese, anche agli occhi dell'Europa, la nostra incapacità di far fronte agli impegni assunti, producendosi per di più un effetto di emulazione per tutte quelle lobby che si oppongono ai rigassificatori, alle centrali elettriche o alle autostrade. Una sistematica opera di interdizione, troppo spesso immotivata, che frena la nostra crescita assai più di quanto si pensi». C'è infine un altro aspetto, segnalato dalla Banca mondiale. Nel 2050 oltre metà della popolazione del pianeta vivrà in sterminate megalopoli, con tutto ciò che comporta in termini di qualità della vita per le persone. L'Europa, ove spesso le distanze tra le città sono più modeste, dell'ordine di 100-150 km, può invece proporre un diverso modello di sviluppo con una fitta rete di centri urbani connessa da eccellenti trasporti su rotaia con tempi di collegamento attorno all’ora, pienamente compatibili con i flussi giornalieri dell'attività lavorativa. Un modello diverso da quello cinese o americano, costituito, soprattutto il secondo, dall’abbandono di intere aree urbane per lasciare il posto a immense e degradate periferie. Tra vent'anni si prevede che l’Europa disporrà di 17 mila km di rete ferroviaria ad elevato standard. E per l'Italia restare fuori da questo circuito significherebbe divenire la periferia del continente. Aldo Novellini
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