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Gregotti un'arte a misura d'uomoL’architettura come un’esigenza imprescindibile, oltre che un’arte, per l’uomo. A sostenerlo è Vittorio Gregotti, architetto di fama internazionale con quasi cinquant’anni di attività alle spalle, che nel suo recente libro «Il Sublime al tempo del Contemporaneo» (pubblicato da Einaudi) spiega che è importante opporsi a qualsiasi disgiunzione dell'architettura dal contesto politico e sociale, dalla coscienza della storia, dalla regola come misura di ogni eccezione. Per mettere in atto, proprio attraverso le forme dell'architettura, una nuova critica positiva della realtà, capace di proporre una modificazione creativa dello stato delle cose. Quale importanza ha avuto, per la sua formazione professionale, il contesto in cui è cresciuto? Sono nato a Novara il 10 agosto 1927. Ho frequentato il Liceo classico e ricordo di avere avuto come docente di latino e greco antico un uomo straordinario. La mia prima passione, però, non è stata l’architettura, ma la musica. Provengo da una famiglia di industriali tessili, per me crescere in una fabbrica è stato veramente importante, perché mi ha consentito di comprendere fin da ragazzo l’importanza del lavoro di gruppo. Mi sono immatricolato al Politecnico di Milano nel 1947. E per alcuni anni l’unico modo per recarmi da Novara a Milano era effettuare il viaggio sui carri bestiame delle ferrovie. Erano anni veramente difficili, a quel tempo l’Italia era ancora tutta da ricostruire. La facoltà di Architettura fu per me una delusione: era al di sotto delle mie aspettative. Del resto, anche il Politecnico era in fase di ricostruzione. Però sono stato compagno di studi di Gae Aulenti, e il tempo ci ha dato successivamente l’occasione di lavorare insieme. Quale è stata la sua prima esperienza di lavoro? Sono stato veramente fortunato: la mia prima esperienza lavorativa è arrivata nel 1947, quando ho vissuto per sei mesi a Parigi. Per sei settimane ho lavorato anche presso il prestigioso studio dei fratelli Gustave, Claude e Auguste Perret. A partire da quel soggiorno feci esperienza di un mondo diverso, e posso dire che al contempo feci conoscenza con molti protagonisti della cultura: a quel tempo Parigi era davvero al centro del mondo. Gli anni Cinquanta, poi, sono stati per me veramente significativi: mi sono recato a Londra, in Germania e negli Stati Uniti, e quindi ho avuto modo di vedere con i miei occhi come era la realtà fuori dall’Italia dopo la Seconda guerra mondiale. È vero che il suo maestro è stato il grande architetto Ernesto Nathan Rogers? Certamente, è lui il mio maestro. Mi sono laureato in Architettura nel 1952. Era il 1950, però, quando ho cominciato a lavorare con Rogers presso lo studio BBPR, e si può dire che la mia carriera ha preso avvio come collaboratore della storica rivista di architettura «Casabella», all’epoca diretta da Rogers. Di questa prestigiosa rivista sono diventato direttore nel 1982. Quali altri incontri ricorda, nell’ambito dell’architettura contemporanea, con personalità così autorevoli? Era l’estate del 1951: non mi ero ancora laureato, ed Ernesto Nathan Rogers mi chiese di partecipare a un seminario del Ciam, il Comité international de l’architecture moderne, che si sarebbe svolto a Hoddesdon, nei dintorni di Londra. Quell’estate del 1951 in Inghilterra ha rappresentato un’esperienza molto importante per il mio futuro e per la mia formazione professionale: a quel seminario parteciparono anche Walter Gropius e Le Corbusier. A quel tempo io ero un ragazzo con il mito dell’avanguardia tra le due guerre e Gropius per me era il grande maestro della modernità. A differenza di oggi, in quegli anni era molto facile avere un rapporto diretto con personalità come Walter Gropius: noi giovani architetti del moderno eravamo pochi e ci siamo incontrati sovente in tutto il ventennio successivo. Ovviamente questi incontri mi hanno condizionato molto: tutte le volte che disegnavo un progetto pensavo a ciò che ne avrebbe pensato Gropius e non a ciò che ne avrebbe detto il mio vicino di scrivania… Quando è arrivato il momento di separarsi dal suo maestro Rogers perfondare uno studio di architettura? Nel 1953, proprio quando l’Italia si trovava nel bel mezzo della fase di ricostruzione e si avviava verso il boom economico, ho deciso di fondare insieme con Lodovico Meneghetti e a Giotto Stoppino lo studio «Architetti Associati». Abbiamo lavorato insieme per quindici anni, fino al 1968. Quale stile avevano i suoi primi progetti? Non c’è mai nei miei progetti un problema di stile, ma una questione di relazione dialettica con il contesto storico e geografico. E ciò che nella nostra Penisola venne definito come “Razionalismo italiano”. L’esempio più significativo di un mio progetto in quegli anni è quello del Palazzo per uffici in via San Gaudenzio a Novara. Nel 1966 ho pubblicato il libro «Il territorio dell’architettura», nel quale parlo delle mie posizioni sull’architettura intesa anche come modificazione dell’ambiente fisico su grande scala. Poco dopo, ho progettato il quartiere Zen di Palermo, avviato nel 1969 e portato a termine nel 1973. Nel 1974 lei decide di fondare la «Gregotti Associati», che quest’anno compie quarant’anni: più di sessanta tra architetti e collaboratori, il primo studio italiano di architettura a comparire nella lista di «World Architecture», che elenca i duecento maggiori studi del mondo. I quali, da soli, impiegano complessivamente oltre ventimila architetti… Esattamente. L’ho fondata insieme a Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui e Bruno Viganò, con sede a Milano. Non si dimentichi che la «Gregotti Associati» si pone nella tradizione dell'architettura moderna novecentesca che risale a Rogers e a Gropius, ma anche a Peter Behrens, a Auguste Perret, a Otto Wagner. Negli anni ho realizzato gli edifici nella Lützowstrasse a Berlino (1979-1982), il Centro ricerche Montedison a Portici (1977-1982), lo stadio olimpico di Barcellona (1983-1985), la Pirelli-Bicocca (1986-1988), lo stadio «Giuseppe Ferraris» di Genova (1986-1988), il Centro culturale Belém a Lisbona (1988-1992), le Salle des Etats e la Ala Denon al Louvre di Parigi nel 1991, e altre strutture tra cui il Teatro dell’Opera ad Aix-en-Provence nel 2003. Sino ad oggi sono più di ottocento i progetti della «Gregotti Associati». Per quanto riguarda gli edifici di culto, invece? Nel corso della mia carriera ho progettato tre chiese. La prima in Sicilia, verso la fine degli anni Settanta. Si trattava della ricostruzione di una chiesa che era stata parzialmente demolita da un terremoto. Poi, nel 1991, il progetto per la realizzazione della chiesa e degli edifici parrocchiali a Baruccana di Seveso (Monza Brianza). E nel 2008 la chiesa dedicata a San Massimiliano Kolbe a Bergamo. Sono stato felice di discutere in diverse occasioni con il cardinale Gianfranco Ravasi in merito al ruolo dell’arte nell’epoca contemporanea. L’arte è anch’essa un aspetto del mondo spirituale. Michela Beatrice Ferri
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