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Sanremo, prima gli ospiti, poi le canzoniSquadra che vince non si cambia. È quello che si devono essere detti, mesi fa, i dirigenti della Rai sull'onda degli ottimi dati Auditel ottenuti l'anno scorso dal Festival di Sanremo. C'è da capirli. Il benestare del pubblico è una delle poche cose che importa loro, insieme alla raccolta pubblicitaria. Quasi logico, quindi, richiamare chi aveva fatto tanto bene nel 2013: Fabio Fazio e Luciana Littizzetto. I calcoli, però, al termine della 64ma edizione del Festival della canzone italiana, non sono tornati. Gli ascolti sono calati e tutti si sono scatenati a cercare di spiegarne i motivi. Certo, non deve aver aiutato l'effetto déja vu, con la stucchevole coppia che riproponeva se stessa, e l'invariata formula del “di tutto, di più” che ormai si ripete uguale da decenni all'Ariston. Ma francamente sembra davvero esagerato il can can mediatico che si è scatenato intorno alla manifestazione ligure, nemmeno indirizzasse le sorti del nostro Paese. Sanremo, ha detto bene Mauro Pagani, direttore artistico del Festival, è un varietà. E lo è ormai da tempo immemore. Un varietà pieno zeppo di ospiti, appunto variegati, che, a differenza di altre trasmissioni televisive, ha tante canzoni in gara. Senza dubbio, nella sua “costruzione”, è un evento musicale (chiamiamolo ancora così) unico, con cinque giorni di diretta, e basterebbe questo per giustificare una doverosa, globale attenzione. Ma che tutto passi sotto una spietata lente d'ingrandimento pare francamente esagerato, soprattutto quando nell'etere circolano programmi ben peggiori, tipo quelli condotti dalla D'Urso, per esempio, per tacere dei talk show politici, quasi sempre urlanti e rabbiosi. Insomma, tanto rumore per poco o nulla. Questo, ovviamente, non assolve il Festival dalle sue magagne, dai suoi riti fatti di siparietti lunghi e inutili, di un esercito di ospiti compressi a forza in barba a qualsiasi flebile logica, tanto meno al tema della “bellezza” sbandierata da Fazio come leit motiv di questo Sanremo 2014. Sembrano appartenere davvero alla preistoria le edizioni da cui uscivano artisti che magari si piazzavano negli ultimi posti per poi imporsi alla grande, come Battisti, Vasco Rossi, Zucchero, i Negramaro, solo per citarne alcuni. Nessuna nostalgia, il mondo va avanti e si cambia. Ma così, il Festival della canzone italiana forse si dovrebbe chiamare il Festival del varietà italiano. Prova ne sia che, come sempre, anche quest'anno i brani in gara hanno dovuto arrancare come un ciclista in salita per farsi ascoltare tra comici, attrici, sportivi, maghi, esperti d'arte, ballerine, spot pubblicitari. Impresa non semplice, ancor più quando la qualità generale delle canzoni non è tra le più eccelse. Infatti si è “viaggiato” su una velocità di crociera stabile, senza particolari sussulti: pezzi in sostanza né belli né brutti, al più gradevoli. La formula della gara è rimasta giustamente quella del 2013, con gli artisti che proponevano due brani, per portarne solo uno in finale, quello più votato dalle giurie, evitando così l'inutile e un po' umiliante eliminazione delle scorse edizioni. Alla fine, è stata incoronata Arisa con «Controvento», seguita con un pizzico di sorpresa da Raphael Gualazzi con il dj/produttore/musicista The Bloody Beetroots (italianissimo, si chiama Simone Cogo) con «Liberi o no» e Renzo Rubino con «Ora». Per questi ultimi due, un po' meno convenzionali nelle proposte, deve aver influito il giudizio della giuria di qualità. Se al loro posto, però, ci fossero stati Noemi, Francesco Renga, Cristiano De Andrè (che ha vinto il Premio della critica) o Giusy Ferreri, nessuno si sarebbe scandalizzato. Le canzoni, insomma, in linea di massima si equivalevano: ben confezionate, spesso ben cantate, ma con pochi squilli. Se fossimo a scuola, diremmo che tutta la classe meritava la sufficienza piena, con mezzo punto in più per qualche alunno più volenteroso. Difficile pensare che “entrino” nella testa del pubblico, che creino affezione, pur sperando di sbagliarci. Mancanza di qualche super nome in gara? «Non si sono voluti», ha detto Fazio, ma forse non hanno accettato né avuto l'intenzione di parteciparvi. Quelli, come gli applauditissimi Baglioni o Ligabue, preferiscono fare gli ospiti. Tuttavia, seppur divisi sempre seguendo la logica sanremese, gli artisti erano dignitosi, tra “alternativi” come i Perturbazione o Frankie hi-nrg, e “classici” come Ron o Antonella Ruggiero. Semplicemente, nessuno aveva il pezzo che ti fa drizzare veramente le orecchie. Tutta un'altra cosa, invece, nella bella quarta serata, dedicata a un immaginario abbraccio tra il Club Tenco e Sanremo, dove ogni artista ha interpretato, accompagnato da ospiti, un brano scritto da giganti della nostra musica (Endrigo, Fossati, Dalla, De Andrè...). E con simili autori non si poteva che volare in alto, in spazi apparsi siderali rispetto a quanto sentito solo la sera prima. Apprezzabili, ma solo per i nottambuli, la pattuglia dei cosiddetti “Giovani”, finiti come al solito a esibirsi a tarda ora. A parte il fatto che bisognerebbe ormai intendersi sul significato di questa categoria, dove ci sono artisti con alle spalle una discreta carriera, seppur “alternativa”, va detto che hanno fatto tutti un'ottima figura, al di là dei piazzamenti e del proprio modo di esprimersi. Molto più coraggiosi dei colleghi “Big” nell'avventurarsi su terreni poco convenzionali, si segnalano The Niro, Zibba, Diodato e il vincitore, il rapper Rocco Hunt. Meriterebbero più considerazione. C'è da chiedersi, in ogni caso, quanto Sanremo serva oggi alla musica, domanda che si ripropone ormai a ogni edizione. La risposta è scontata: poco o niente. In un panorama ormai liquido, tra download, web, smartphone e tv interattiva, dove le note musicali viaggiano accoppiate ai bit, il pubblico sceglie e scarica in libertà. Difficile quantificare la reale popolarità di un artista se non quando parte in tour, con la vendita dei biglietti. È quello il vero metro di giudizio. Forse il Festival garantisce ancora una lunga stagione di concerti nella stagione estiva a chi vi partecipa e una breve botta di notorietà mediatica tra le innumerevoli radio, tv e testate giornalistiche che si agitano a Sanremo in quei giorni. Poi, però, si riprende a camminare da soli. E il Festival, spente le luci della ribalta, ritorna a essere solo un ricordo sbiadito. Claudio Facchetti
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