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Per Renzi un'impresa non facileChe cosa accadrà a Matteo Renzi, dopo aver ricevuto «con riserva» da Giorgio Napolitano il mandato a formare il nuovo governo, nessuno lo sa. Nemmeno lui, anche se dopo il colloquio di un’ora e venti con il Presidente della Repubblica ha detto ai giornalisti che in quattro mesi, fra febbraio e maggio, si occuperà concretamente delle riforme costituzionali e di quella elettorale; subito dopo del lavoro; quindi dello snellimento della pubblica amministrazione e infine del fisco, con tagli alle tasse in grado di accelerare la ripresa economica. Il giorno stesso in cui ha fatto pubblicamente queste promesse gli è arrivato un doppio motivo di consenso e di soddisfazione. L’ex premier britannico Tony Blair ne ha elogiato «il dinamismo, la creatività e la forza per farcela», e ha invitato gli altri leader europei a sostenerlo «mentre si assume la responsabilità per il futuro del suo Paese». E in Sardegna, sia pure con il voto di un solo elettore su due, il candidato del centro-sinistra e suo amico Francesco Pigliaru ha vinto le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale sconfiggendo il governatore uscente Ugo Cappellacci, di centro-destra e sostenuto fino all’ultimo da Berlusconi. In questi giorni, come diffusamente dicono le cronache, Renzi sta mettendo insieme la sua squadra di governo, fra molte difficoltà e anche parecchi preventivi dinieghi di uomini e donne che gli hanno sempre mostrato fiducia, ma ora percepiscono chiaramente che operare con lui sul fronte della crisi economica tuttora in corso, sia pure con qualche lieve accenno di ripresa interna e internazionale, sarà un’impresa non facile. Per tre motivi. Il primo è la sostanza di un programma concreto e documentato, che ancora non c’è, in tutti i campi, a cominciare proprio da quello della nuova legge elettorale, da lui concordata mesi fa con Silvio Berlusconi. Il secondo è la netta rottura in entrambi i fronti della maggioranza di “larghe intese” su cui si costruì la fiducia al governo Letta, prima infranta nel Pdl con la fuga di Alfano, la nascita del Nuovo centro-destra e la rinascita di Forza Italia sotto la guida del pregiudicato Silvio Berlusconi; e poi con le primarie nel Pd, che hanno lasciato come eredità antirenziana la dissidenza della sinistra di Giuseppe Civati, il quale ha già detto che ci saranno almeno dieci senatori del partito che non daranno la fiducia al nuovo governo, a loro giudizio nient’altro che un centro-sinistra poco rivoluzionario e piuttosto “liberista”, visti gli alleati, il Ncd e Scelta civica (montiana senza Monti). Il terzo è proprio il rischio che queste rotture nei partiti provochino ben presto una nuova crisi di governo, con la sua caduta e l’inevitabile scioglimento delle Camere prima ancora che ci sia la nuova legge elettorale e dunque con la conferma del tripolarismo di eguali, fra il Pd e i suoi coalizzati, FI e suoi coalizzati, e il M5S (la cui assenza dalla competizione per motivi interni spiega in gran parte la scarsa affluenza alle urne domenica scorsa in Sardegna). In quel caso, i sondaggi attuali dicono che Forza Italia, restando all’opposizione, sarebbe numericamente premiata, mentre il Pd arriverebbe secondo e il Ncd sparirebbe dal Parlamento perché non avrebbe potuto far parte della coalizione berlusconiana soprattutto dopo il furioso litigio della settimana scorsa a colpi di «utili idioti» e «inutili idioti» fra il Cavaliere e Angelino. Naturalmente tutto quello che è possibile dire in questi giorni è condizionato da un’ulteriore incertezza: fin quando durerà la premiership diretta di Berlusconi nel centro-destra, visto che fra qualche settimana, al più nei primi giorni di aprile, si saprà che cosa lo attende dalla Giustizia, sia nella decisione che il Tribunale di Milano deve prendere su come sconterà la condanna per il reato di frode fiscale (detenzione domiciliare o nei servizi sociali, con poco tempo a disposizione per le operazioni politiche), sia nel processo aperto contro di lui a Napoli per la compravendita di parlamentari. E ciò riporta inevitabilmente il discorso sulla politica italiana di questi anni al nodo dei conflitti d’interesse, tuttora ben vivo, e quindi della corruzione. Un argomento al quale fa riferimento con copiosi interventi, sia pure dedicati principalmente alla Francia, il numero di gennaio della rivista «Esprit», intitolato in copertina «La corruzione, malattia della democrazia». La sostanza del ragionamento è questa: ogni cosa si corrompe per natura, quindi anche i comportamenti umani. Ce lo ha insegnato Montesquieu che la democrazia può pervertirsi grazie ai suoi stessi princìpi. Quando, come adesso, «il principio della democrazia si incarna nell’homo oeconomicus più che nel cittadino virtuoso animato da un amore sincero delle leggi, questa forma di governo rischia di degradarsi in uso cinico delle istituzioni. La democrazia riposa sulla libertà individuale, l’autorità della legge (rule of law) e la divisione dei poteri: essa si corrompe quando questi tre valori, sotto la finzione di approfondirli, cospirano in realtà a snaturarla. La libertà si riduce allora all’interesse, l’autorità della legge diventa formale e i poteri non sono più separati che in apparenza». E’ quanto il ventennio berlusconiano ha espresso nella politica italiana, e quanto, fra l’altro, Renzi promette di cancellare. C’è da augurarsi che ci riesca (anche se Alfano e i suoi temono che il Cavaliere lo appoggi, per salvare in qualche modo se stesso e distruggere loro, in quanto suoi “traditori”). Lo sapremo presto. Beppe Del Colle
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