![]() Accesso utente |
Fiducia nei giovani«Tanti ragazzi tosti, quando li abbiamo puniti, ci hanno minacciato, ma alla fine non hanno fatto niente perchè sentono che c'è amore dietro a quella punizione. Gridano, si arrabbiano, ma poi ritornano perchè in quella punizione c'è l'educazione». Alla Fraternità Buon Samaritano in Locride con suor Carolina funziona così. Questo significa educare? Oppure educare è vuol dire «smettere di continuare a considerare i giovani semplicemente come persone bisognose, di cui l'adulto è chiamato a prendersi cura», come si legge in un sondaggio della Cattolica? Forse, educare è tutto questo, e molto di più. Al XIII Convegno di Pastorale giovanile, che si è svolto a Genova dal 9 al 13 febbraio, con 550 delegati da tutta Italia a cercar di capire insieme chi sono i giovani e chi sono (o chi devono essere) coloro che li educano, l’argomento era la cura educativa «Tra il Porto e l'Orizzonte». Un titolo significativo, con relatori e operatori della pastorale ospiti proprio sul mare, nel Porto Antico, in quei “magazzini del cotone” dove le navi un tempo depositavano le merci, e dai quali era facile pensare al porto dal quale si parte, ma con un orizzonte al quale guardare. Inserito nel cammino pastorale della Chiesa italiana per il decennio 2010-2020, dedicato all’emergenza educativa, il Convegno ha portato a Genova sacerdoti, religiosi, vescovi, laici, giovani e adulti provenienti dalle 226 diocesi italiane, dalle associazioni e dai movimenti ecclesiali che si occupano di giovani, dagli istituti di vita consacrata coinvolti nel mondo dei giovani e dell'educazione ed alcune delegazioni europee. «E’ necessario custodire, come fa la curva di un porto», ha detto don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale giovanile, «ma a volte bisogna mostrare l’orizzonte e saper invitare a prendere il largo, come Gesù che invita più di una volta i suoi a staccarsi dalla riva; a volte bisogna lasciare che i nostri adolescenti e giovani prendano il largo e chi ha il compito di essere educatore sappia stare a riva accendendo la luce del faro». Non il faro delle nostre idee o delle nostre passioni, ma quella luce che la Chiesa ha consegnato a ciascuno, per le mani del papà, il giorno del Battesimo. Suor Carolina Iavazzo, che aveva lavorato a lungo con don Pino Puglisi, ha provocato, con il racconto di situazioni estreme, chi proveniva da esperienze apparentemente più tranquille. Ma i delegati commentavano poi che sul fronte educativo le situazioni estreme si toccano dappertutto, e se non è per gli ambiti malavitosi dove don Puglisi immolò la vita è anche per altre «malavita», intese nell’accezione letterale, vissute da giovani provocati e sollecitati da un mondo che chi era giovane quarant’anni fa neppure se lo immagina. «Gli adolescenti sono fragili ed è per questo che hanno bisogno di qualcuno accanto che scommetta su di loro prima che si perdano», dice suor Carolina. «Padre Pino diceva che con i ragazzi bisogna puntare a mille perchè se punti a 100 un ragazzo ti da 10, se a mille ti da 100». Sono questi gli educatori accanto ai giovani: quelli che ci stanno dentro, fino al collo. Il primo compito dell’educatore, secondo don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, è «esserci e non stare fuori dal campo dove viene giocata la partita». Lo spunto è il «mi dai una mano?», che usava don Bosco per entrare in relazione con i suoi giovani, un modo per «coinvolgere in modo radicale i giovani con i quali vogliamo vivere l’esperienza del Vangelo». Oltre allo stile di “prossimità”, anche fantasia ci vuole, perché la cura educativa «si realizza nella capacità di ereditare in modo creativo», come ha spiegato Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara: «Noi dobbiamo rendere possibile», ha detto, «che diventi conquista dei nostri ragazzi ciò che doniamo, affinché siano capaci di possederlo davvero». E’ il «paradigma generativo» per il quale educare vuol dire generare: «Il padre e la madre sono dispensatori della vita per conto di un Terzo, ne trasmettono il dono e il senso, perché il mistero dell’esistenza sia promessa e appello; l’autorità dei genitori e, rispettivamente dell’educatore, diventa dal di dentro testimonianza alla vita buona». Una prospettiva in certo senso «rovesciata», da parte di Pierpaolo Triani, Università cattolica e Istituto Toniolo, che ha invitato a non continuare a considerare i giovani come persone stanche e disinteressate: le ricerche parlano di come siano attraversati da un’energia di vita, da un’aspirazione a realizzare se stessi, ad avere un lavoro stabile, una famiglia, dei figli. Sono attraversati da un desiderio, ma non incontrano risorse e processi che permettano di concretizzare. Se a Genova la tentazione era per alcuni quella del pessimismo, in molti hanno reagito chiedendo speranza. Efficace la risposta di Triani, secondo il quale il giovane «richiede la sperimentazione di un atto di fiducia su di sé: se vogliamo che i giovani si fidino, dobbiamo comunicare loro la nostra fiducia nelle loro risorse e possibilità». Da qui la responsabilità: essenziale che «i giovani siano sollecitati a prendere in mano se stessi: diventare grandi è un processo personale, che matura con la formazione di una coscienza critica». Infatti i giovani sono comunque quelli disegnati dal sondaggista Nando Pagnoncelli, dell’istituto di ricerche Ipsos: «Sono camaleonti adattabili al dinamismo incalzante, disposti ad adattarsi con grande flessibilità, ma senza rinunciare a sognare. Al tempo stesso vogliono una famiglia, un luogo di rifugio, almeno due figli; sono consapevoli che l’Italia stia andando in una direzione sbagliata, ma sono più ottimisti degli adulti». «Sono buoni se li scongeli», dicono dalla diocesi di Faenza. «I giovani hanno bisogno di qualcuno che li scuota, che gli apra la strada. Soprattutto quelli che si trovano al di fuori degli ambienti parrocchiali». Scuotere può anche voler dire scardinare una priorità dell’oggi: vincere l'enfatizzazione che viene posta sul benessere dell'individuo, stimolandolo a pensare la propria realizzazione in rapporto a quella degli altri. «Ogni convegno nazionale», commenta in chiusura monsignor Nicolò Anselmi, già responsabile della Pastorale nazionale giovanile e ora responsabile di quella genovese, «porta con sè numerose ricchezze: la possibilità di incontrare persone provenienti da varie parti d'Italia, testimoni di diverse sensibilità, di caratteristiche pastorali diverse e complementari, e l’ascolto di voci autorevoli di studiosi e ricercatori. Questo ci invita a pensare, a studiare, a non agire solo in modo istintivo; l'amore educativo, l'agire della Chiesa, l'attenzione ai giovani non possono essere improvvisate ed è bello capire insieme cosa fare». Pregare, intanto, come ha invitato a fare il vescovo di Parma, Enrico Solmi: «Chiedere al Signore di aprire i nostri i cuori per poter servire i giovani e per poter così con lui abitare i cuori dei giovani. In modo particolare di quelli che cercano Dio in luoghi sbagliati, pericolosi, malfamati». L’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco e presidente della Cei si è rivolto agli operatori dell’educazione citando a piene mani Romano Guardini. «Educare», ha detto, «è dare al ragazzo il coraggio verso se stesso. È sostenerlo nella conquista della libertà sua propria. È aiutarlo a trovare la sua strada verso Dio». E come rispondendo alla domanda sottesa a tutto il convegno: «Come educatori, la vostra prima domanda non riguardi che cosa potete fare per i ragazzi, ma chi siete voi. Allora avrete poi cura perché l'altro non solo abbia le carte per affermarsi nella vita, ma cresca fino alla maturità del suo rapporto con Dio». Daniela Ghia
|