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Pindaro ci aspetta a SochiLe Olimpiadi invernali di Torino 2006 sono state la montaliana "occasione" che ha spinto il comitato scientifico della Fondazione «Carlo Palmisano» a organizzare un convegno su sport e letteratura, dopo anni di indagine sui rapporti che intercorrono tra la letteratura e le altre muse in apparenza distanti dalla filologia, la critica, la poesia (arte figurativa, economia, scienza, religione, musica). C'è stata una particolare passione nell'organizzare il volume «Letteratura e sport. Per una storia delle Olimpiadi» (Interlinea, pp. 297, euro 20) che conteneva gli interventi di quell’incontro, soprattutto perché riportava nella mente di amici e studiosi la sapienza nell’intrecciare vita e letteratura di Stefano Jacomuzzi, raffinato studioso di letteratura italiana e scrittore, ma anche autore di due opere monumentali su «Gli Sport» (Utet, 1965) e sulla «Storia delle Olimpiadi» (Einaudi, 1976). Uno dei suoi romanzi più noti, «Vento sottile», dedicato al pugile Panama Al Brown, aveva dimostrato che lo sport era una metafora della vita, spesso attraversata dall’autodistruzione, dalla violenza, dal coraggio che non riesce tuttavia a impedire la vanità del combattimento, come commentò Claudio Magris. Per lui lo sport era una cosa diversa, quella che sapeva offrire le piccole gioie di Herman Hesse in «Lettera d’inverno», dove scriveva che lo sci fa bene «come vedere un quadro di Segantini o ascoltare una frase musicale di Mozart», grazie alla «rara meraviglia» della natura circostante. Per Stefano Jacomuzzi questa gioia scaturiva anche dall’atletica da lui praticata in gioventù, che rende tangibile l'illusione di avere vinto tutte le forze che costringono un essere umano a terra. A ben vedere lo stesso spirito anima la ginnastica artistica, uno sport di squadra che aggira l’aspetto peggiore dell’«Agone omerico», che secondo Nietzsche chiamava in causa il dominio di una divinità bifronte, Eris, che è per un verso «desiderio di annientamento e di crudeltà», la ferocia del mondo dei titani, e, per l’altro verso, lo spirito agonale degli olimpionici greci, che quando gareggiavano pensavano al bene della propria città e le corone sul loro capo venivano offerte agli dèi. In questi giorni si stanno svolgendo altre Olimpiadi invernali e ci si chiede se quell’antico orgoglio sia ancora vivo e se possa agire contro le derive di nazionalismo, quelle che si esprimono con la ferocia e l’aspetto distruttivo che conduce alle guerre, alla corruzione che è aleggiata anche nei faraonici allestimenti di Sochi. Se dobbiamo fidarci della lungimiranza del barone Pierre de Coubertin, che nel 1896 decise di riportare nell’agone lo spirito antico, possiamo sperare che l’aspetto ludico della sfida tra potenze mondiali produca l’altro volto di Eris, che meritava un canto d’encomio pronunciato da un poeta. Le più belle odi di Pindaro, le «Olimpiche», appunto, stanno lì a dimostrare che fin dalle origini sport e letteratura non erano poi così distaccate e che il primo doveva rendere onore alla sua terra: «Come il sole splende più brillante di ogni altra stella, così splende Olimpia, mettendo in ombra tutti gli altri giochi». Nel discorso che il barone Pierre de Coubertin tenne il 23 giugno 1894 alla Sorbona di Parigi appare chiaro che i suoi intenti erano proprio quelli di avvicinare nazioni diverse «con le amichevoli lotte dello sport» e, con «l'osservazione leale delle regole che presiedono ai nostri giochi, aprire le loro anime a quel sentimento di reciproco rispetto, che è il fondamento primo del mantenimento della pace fra i popoli». Le sue intenzioni non erano solo archeologiche, sentimentali, ma alludevano anche a istanze ideali, interessi economici e rigurgiti del nazionalismo dei suoi tempi e di tutti i tempi, che potevano attenuarsi proprio grazie allo spirito agonistico. Perciò il barone fece sue le parole che Pindaro usava per esaltare il valore fisico come indissolubile dal valore morale, nonostante l’orgoglio di razza, i benefici e i compensi per poesie d’occasione. Accadrà anche per questa 22ª Olimpiade invernale, che è in corso in Russia, dove è ospitata per la prima volta della storia del Paese (anche se nel 1980 Mosca ospitò quella estiva, che per la magia dei numeri era ancora una volta la 22ª edizione)? In attesa di un Pindaro anche per Sochi, la memoria ci riporta al tema dello sport nella nostra storia letteraria, dove la stella di quel poeta brillò persino nelle cronache e basta pensare a Buzzati, che scrisse del Giro d'Italia, con Bartali e Coppi che si sfidavano come due eroi omerici: il primo come il vecchio Ettore e il secondo come il giovane Achille. Ma ci furono altri cronisti d'eccezione, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Marcello Venturi, per esempio, capaci di restituire al ciclismo l’immagine di un’epica senza tempo. Per il gioco del pallone (che per Gianni Brera va sempre a braccetto con la letteratura), invece, viene subito in mente Leopardi, che dedica una canzone «A un vincitore nel pallone», ma anche le «Cinque poesie sul gioco del calcio», dove Saba salutava i suoi amati «rosso-alabardati» e, a fine Ottocento, per assonanza cromatica, le parole celebrative di De Amicis («Gli azzurri e i rossi»), il quale trovava lo spettacolo «così piacevole e così sano» da distrarre «tanta parte del popolo, come faceva nel passato, dai giochi d’interesse, innaffiati di vino, e qualche volta di sangue». Anche leggendo questi testi si avverte lo scarto che dalla prosa conduce all’epica e, direbbero Magris e Jacomuzzi, anche il gioco del calcio può diventare una parabola della vita. Negli «Scritti corsari» Pasolini affermava addirittura che il calcio è pure un linguaggio, i calciatori i fonemi, pronti a compiere l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Certamente calcio e ciclismo hanno sempre infiammato gli animi degli spettatori, ma anche gli sport invernali di questa nuova Olimpiade hanno suscitato immagini che trasformano la competizione in arte. Ancora Buzzati dedicò pagine memorabili alle montagne, ma lo fecero pure Rigoni Stern, raccontando la sua storia di alpino, e Calvino in «L’avventura di uno sciatore», che, già nel 1959, prevedeva lo scempio paesaggistico dello sport di massa. Ma penso anche alla «Piccozza» di Pascoli, che canta la bellezza dell’assoluta solitudine delle vette: «Da me, da solo, solo con l’anima, / con la piccozza d’acciar ceruleo, /su lento, su anelo, / su sempre; spezzandoti, o gelo!» L’alpinismo, insomma, o le moderne eppure antiche ciaspole, sono un andare verso l’alto e, dunque, una materia di poesia. A Sochi non sarà la solitudine che evoca il sublime a ispirare lo scrittore, ma la gara celebrata o ironizzata come fece Aristofane per quelle di Atene, oppure l’intensità irripetibile con cui essa è diventata allegoria dell’esistenza. In ogni caso, come in tutte le gare sportive, ciò che colpisce è la rappresentazione di una sorta di incontro mitico con i giganti, gli eroi del nostro misero tempo e, per un altro verso, è anche il fascino del primordiale, dell'istintivo che diventa suprema stilizzazione. Tutti gli uomini corrono, saltano, sciano o giocano al pallone, ripeteva spesso Stefano Jacomuzzi, ma lo spirito agonale trasforma tutto questo in gesti perfetti, emozionanti anche per la bellezza e perfezione del movimento. Per questo aspetto lo sport assomiglia alla poesia, che sa trasformare parole quotidiane in una danza armonica, in un’opera d’arte. Se pensiamo all'atletica (de Coubertin pensò soprattutto alla promozione di questa disciplina quando escogitò una strategia per riportare in vita i Giochi olimpici) ma anche all’hockey sul ghiaccio o al pattinaggio, possiamo aggiungere anche un altro dato, quello di rappresentare la «meravigliosa sensazione di volare, di cadere», come dice Hemingway in uno dei suoi «racconti invernali». Un fascino che attraversò anche la mente di Gozzano quando in «Invernale» descrive il volo di due pattinatori su ghiaccio dicendo: «Fatto lieve così come uno spetro, / senza passato più, senza ricordo, / m’abbandonai con lei, nel folle accordo, / di larghe rote disegnando il vetro». Le allusioni dell’autore alla ghiaccia di Cocito e al folle volo dell’Ulisse dantesco, grazie allo sport, si trasformavano in poesia celeste dell’altrove. Persino Salgari, ex atleta in diverse discipline, stampava alla fine del 1895 il racconto «Al Polo australe in velocipede». Lo sport e la letteratura per lui erano un modo per volare nel mondo pur restando sempre fermo per tutta la vita alla sua scrivania. Sono pochi esempi, ma per chi guarda il mondo con gli occhi della poesia, le Olimpiadi sono ancora un segno della speranza di Pindaro: «La fulgida luce della pace, che dà conforto all'uomo, dagli animi cacciando la vendicativa discordia, apportatrice di miseria, funesta alla vita dei figli». Giovanna Ioli
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