![]() Accesso utente |
Industrie: le colpe sono di tuttiCome s’è potuto vedere la scorsa settimana a proposito del riposizionamento globale del Gruppo Fiat–Chrysler, la grande recessione ha profondamente rimodellato la struttura dell’industria manifatturiera italiana, e non consente di escludere la possibilità di un effetto permanente di desertificazione su un sistema che in cinque anni ha perso un quarto della sua produzione. Ragionare sulle possibilità offerte dall’attuale, debole ripresa, può essere per certi versi fuorviante, perché il problema è tutt’altro che congiunturale. La crisi internazionale ha in una prima fase colpito duramente l’apparato produttivo nel suo complesso, ma la tenuta dei grandi Paesi emergenti, oggetto negli scorsi anni di cospicui afflussi di capitale dall’Occidente, unita alle conseguenze del processo di consolidamento della finanza pubblica in Italia, ha determinato una profonda dicotomia. Dopo la prima pesante caduta del biennio 2008–2009, sostanzialmente uniforme, la seconda violenta flessione, iniziata a partire da metà 2011 e proseguita fino al terzo trimestre dello scorso anno, ha interessato in modo profondamente diverso i settori produttivi e le imprese maggiormente orientate ai mercati mondiali, rispetto agli operatori concentrati prevalentemente sul mercato interno. I primi, abituati a competere alla pari con la migliore concorrenza internazionale, in grado di far valere l’eccellenza della forza lavoro italiana applicata ai settori della meccanica strumentale e del settore dei beni di produzione in generale, della farmaceutica, delle biotecnologie, delle fasce alte del made in Italy tradizionale (dall’alimentare all’abbigliamento di lusso, all’arredamento e all’oreficeria), hanno recuperato le perdite e in alcuni casi superato di slancio i livelli del 2007. Per contro, i comparti e le imprese maggiormente concentrate sul mercato interno hanno dovuto fronteggiare la drammatica caduta della domanda legata nella prima fase alle conseguenze interne della crisi originatasi nel sistema finanziario degli Stati Uniti, e nell’ultimo biennio all’urgenza del consolidamento finanziario imposto dai ritardi accumulati nel ventennio precedente. La crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona, come anche l’urgenza di risanare i conti durante una recessione con il risultato di aggravarla, non sono stati prodotti dalla presunta miopia dei tecnocrati di Bruxelles, e neppure da un complotto delle cancellerie francesi e tedesche ai danni dell’Italia, come ancora oggi qualcuno sembra sostenere, ma dall’inescusabile latitanza con cui i problemi strutturali della finanza pubblica sono stati trascurati per decenni da forze politiche di ogni colore, incapaci di raccogliere consenso su programmi credibili e a lungo termine. Un sistema industriale delle dimensioni di quello italiano non può reggersi unicamente sulle esportazioni. Può andare bene per un piccolo Paese, ma non per quella che resta comunque la quarta economia dell’Unione e una delle prime dieci del mondo. Il declino della propensione a spendere delle famiglie residenti e il taglio degli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione si sono abbattuti sulla parte già più debole e meno competitiva del nostro sistema industriale, con ricadute difficilmente reversibili. Al di là della contrazione del mercato, sì è infatti assistito ad una decisa penetrazione di prodotti di fascia bassa e prezzi contenuti, provenienti dall’estero anche se in taluni casi con marchio italiano. Le produzioni interne ne sono state spiazzate e la delocalizzazione produttiva ulteriormente incoraggiata. Si assiste pertanto al paradosso di un Paese la cui industria fabbrica nel Paese beni di investimento e di consumo eccellenti sul piano tecnologico, della sicurezza, del design e del gusto, esportandoli ovunque vi siano imprese in grado di utilizzarli e clienti privati che li apprezzino e dispongano delle risorse per acquistarli. Un Paese che poi soddisfa la domanda del proprio mercato interno facendo largamente ricorso all’importazione di prodotti di fascia media e bassa che non riesce a produrre sul proprio territorio a costi compatibili con la necessità di praticare prezzi accessibili alla maggioranza dei consumatori italiani. Il riposizionamento strategico di Fca, ampiamente discusso la scorsa settimana, è solo un esempio di questo paradosso. La stragrande maggioranza delle auto vendute in Italia dal Gruppo è prodotta in Polonia, Serbia, Messico, mentre il destino degli stabilimenti italiani dipende in misura decisiva dal successo che avranno i modelli “di lusso” Maserati, Alfa Romeo, Jeep e 500X, destinati in misura rilevante all’esportazione. La triste vicenda di Electrolux, che ha visto emergere una vera propria guerra tra i quattro stabilimenti italiani del Gruppo svedese (e tra i relativi sponsor politici) all’insegna del mors tua vita mea, è un altro esempio. E’ certamente vero infatti che il Gruppo che ha rilevato alcuni marchi storici dell’industria italiana degli elettrodomestici è stato convinto a suo tempo ad investire in Italia grazie a massicci interventi pubblici, ma anche in questo caso, come peraltro in quello di Fiat, senza un preciso disegno di politica industriale. Non si è stati in grado, quando le condizioni del bilancio pubblico lo rendevano ancora possibile, di collegare gli aiuti pubblici con precisi impegni ad innalzare il livello tecnologico delle produzioni realizzate in Italia e l’efficienza degli impianti, al fine di rendere più conveniente la loro localizzazione sul territorio italiano e meno attraenti le sirene della delocalizzazione. La crisi finanziaria ha ulteriormente aggravato gli effetti di questi errori di lungo respiro. Le banche italiane sono anch’esse impegnate in un processo di ristrutturazione estremamente complesso, dopo avere pensato, negli scorsi decenni, che i massicci investimenti nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione fossero compatibili con i livelli occupazionali e soprattutto con le competenze del personale del passato. Oggi, ovviamente nel momento meno indicato, premono per ridurre i costi del lavoro, come peraltro fa Electrolux e, in un settore completamente diverso ma con gli stessi obiettivi, Alitalia. Tutto sembra dipendere dalla riduzione del costo del lavoro, come se non ci si rendesse conto che il contenimento delle retribuzioni abbatte ulteriormente quella domanda interna la cui ripresa è fondamentale per mantenere in Italia la terza industria manifatturiera d’Europa. La crisi del sistema bancario accresce la selettività nella concessione del credito, e spesso questo viene a mancare, o è offerto a tassi elevatissimi, anche ad imprese di ottima qualità, che in tal modo diventano facile preda dei capitali esteri. Non è solo un problema delle grandi realtà, ma di tante piccole imprese di successo che, di fronte alla crescenti difficoltà di finanziare la loro espansione, vengono acquisite, magari dai loro stessi clienti industriali tedeschi o francesi, timorosi di perdere un fornitore di alto livello. Il rischio è che il valore aggiunto di queste realtà, e le relative competenze, finiscano prima o poi in un altro Paese desertificando ulteriormente il tessuto produttivo italiano. E’ mancata e manca tuttora un progetto di politica industriale, s’è detto. Ma va chiarito che non è solo un problema del “palazzo”, ma di tutto il Paese. Il Paese che reclama occupazione ma si oppone agli investimenti infrastrutturali che la assicurerebbero (come la Tav), che chiede alle imprese di restare ma sostiene gli incentivi alle fonti energetiche rinnovabili e rifiuta rigassificatori e gasdotti (emblematici i casi di Trieste e della Puglia, in area Electrolux e Ilva), con la conseguenza di rendere insostenibile il costo dell’energia per le imprese. Il Paese che vorrebbe gli investimenti esteri ma che chiede al governo di valutare la compatibilità dell’ingresso degli Emirati Arabi in Alitalia con la salvaguardia del valore strategico del sistema aeroportuale “padano”. Il Paese che si riempie la bocca di ricerca scientifica, innovazione, ruolo della scuola, ma che considera la tecnologia nucleare come il diavolo, rifiuta la sperimentazione sugli animali, sostiene pratiche mediche senza alcuna credibilità chiedendo che vengano finanziate con denaro pubblico e vorrebbe cancellare dal nostro Paese l’industria dei sistemi d’arma, quando è risaputo che le ricadute delle sue innovazioni sul settore civile sono enormi (vedi la vicenda degli F35). In altri Paesi imprese come Renault e Volkswagen hanno dimostrato che, se vi sono le condizioni di sistema, si possono produrre auto di fascia medio-bassa anche in nazioni ad alto costo del lavoro. Ma un sistema efficiente è fatto anche di condivisione di obiettivi. E qui il problema non è il governo o il Parlamento. Il problema siamo noi. (2 – fine) Antonio Abate
|