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Diciassette aggettivi per Einaudi«Altero, bizzoso, caparbio, diffidente, elegante, fascinoso, geniale, intelligente, litigioso, mutevole, non conformista, orgoglioso, polemico, raffinato, superbo, temerario, vanitoso». Sembra il ritratto di un Superman e invece questi diciassette aggettivi si riferiscono a Giulio Einaudi, il creatore di quella che è stata per mezzo secolo la casa editrice italiana più importante e innovativa del Novecento. Non soltanto per i testi pubblicati, ma anche per la confezione del libro, con quelle copertine a fondo bianco che rimangono un segno grafico di straordinaria eleganza. A definirlo così è uno che lo ha conosciuto bene, Guido Davico Bonino, che a dieci anni di distanza ripropone «Alfabeto Einaudi», ampliato e con un nuovo titolo, «Incontri con uomini di qualità. Editori e scrittori di un’epoca che non c’è più» (Il Saggiatore, pp. 387, euro 23). Il volume, con una scrittura elegante e precisa, traccia una cartografia e una radiografia di una casa editrice vista dall’interno, con i personaggi che ci lavorano, le qualità e le bizze umorali che esprimono nei rapporti con gli scrittori e con i libri. L’autore, torinese e maestro nell’esercizio della dote subalpina più caratteristica, l’understatement, è stato per anni critico teatrale de «La Stampa», docente universitario di Storia del teatro, direttore dell’Istituto italiano di cultura a Parigi. Giovanissimo, a ventitre anni, neolaureato, nel 1961 ha avuto la fortuna di entrare all’Einaudi grazie a Giulio Bollati, il “braccio destro” dell’editore”, e a Italo Calvino, colpito favorevolmente da una sua recensione della trilogia «I nostri antenati» apparsa sulla rivista «Il Caffè». Ci resterà per diciassette anni, fino al 1978, e sarà proprio Calvino, che dovrà sostituire, a spiegargli le mansioni del capoufficio stampa: scrivere i risvolti, le quarte di copertina, la fascetta, gli slogan pubblicitari, i comunicati per i giornali, le note per i venditori e i librai. Se Calvino gli insegna il rigore e la pulizia della scrittura in quel lavoro delicatissimo che è la cucina editoriale del libro, Giulio Bollati, «affabile e pieno d’ironia», un vero gentiluomo d’altri tempi, gli spiega l’idea della casa editrice come “progetto”, basato sulla correlazione tra le varie opere. Un’idea di metodo di lavoro a raggiera: «Se la figura del circolo è perfetta, l’ideale sarebbe partire da un libro centrale, intorno a cui riuscire a disporre, come sull’intera circonferenza, altri libri, equidistanti da quello, e con lui in perfetta rispondenza». Un’idea, aggiungiamo noi, che darà frutti, perché verrà attuata da Roberto Calasso con l’Adelphi e teorizzata nel suo recente volumetto «L’impronta dell’editore». Il giovane Davico, mentre svolge il suo apprendistato, una bildung di grande spessore etico e conoscitivo, collezione una serie di aneddoti divertenti che colorano un’attività intellettuale non sempre esaltante e sono spie indicative degli umori e dei diversi caratteri dei personaggi con cui entra in contatto. I viaggi in macchina per la città a fianco di Calvino alla guida della sua auto sportiva, che limava le cortecce degli alberi dei controviali e procedeva a strappi accelerando in prossimità dei semafori. I ricordi di Pavese strappati a viva forza da Calvino durante le cene in trattoria (lo scrittore piemontese, nel firmare il contratto per «Paesi tuoi», aveva chiesto a Einaudi una pipa come anticipo) e da Natalia Ginzburg, che lo aveva definito «un impiegato meticoloso e un lavoratore infaticabile». Oreste Del Buono che, non soddisfatto del suo lavoro di scrittore, compra tutte le copie di due romanzi appena stampati per mandarli al macero e paga una penale di alcuni milioni. Salinger che costringe l’editore a cambiare la copertina de «Il giovane Holden» perché non vuole nessuna immagine sopra. Il germanista Ladislao Mittner che chiede al sommelier del ristorante Del Cambio un barolo bianco di cui mai nessuno ha sentito parlare. Il vorace Manganelli che abbandona il ritiro valdostano dopo che Einaudi gli ha sottratto con la forchetta le patatine dal piatto. Nabokov incontrato casualmente a Limone nel 1967, dove si era rifugiato per andare a caccia di farfalle. Bertold Brecht apparso sul palco alla prima dell’«Opera da tre soldi» di Strehler a Milano nel 1956, pochi mesi prima di morire. Perec, incontrato a Parigi al Café de la Mairie in place Saint- Sulpice, che descriverà in tutte le ore del giorno in «Tentativi di esaurimento di un luogo parigino». E poi ci sono i grandi scrittori italiani, Fenoglio, Gadda, Pasolini, Parise, “soffiati” da Garzanti, e Landolfi, edito da Vallecchi e poi da Rizzoli prima di approdare all’Adelphi, vanamente cacciato dal detective Davico Bonino a Bordighera. All’Einaudi non manca neppure un ghost translater, che si firma Luca Lamberti, traduttore inesistente di molti libri Einaudi, e a me ha sempre ricordato Duca Lamberti, il celebre medico-commissario dei noir di Giorgio Scerbanenco. C’è in Davico Bonino la stoffa del narratore quando rievoca due incontri con due vecchi scrittori, che subito non riconosce, nella casa editrice di via Biancamano, sospesi tra il patetico e il nostalgico. Il primo è «un omino anziano e piuttosto grigio, con un’aria poco invitante da impiegato di banca», che si presenta come Bruller ed è venuto apposta per «vedere da vicino la casa editrice». Si tratta del direttore delle Editions de Minuit, che ha firmato con uno pseudonimo, Vercors, un piccolo gioiello della letteratura, «Il silenzio del mare», tradotto da Einaudi nel 1945. Il secondo è «una signora piccola, con i capelli grigi a frangetta, un casco di lana in testa e sulle labbra qualcosa di simile a una fitta peluria grigio bianca». E’ l’amica di Gertrude Stein, Alice Toklas, di passaggio a Torino e giunta in taxi in casa editrice per conoscere Giulio Einaudi, che aveva pubblicato nel lontano 1938 l’«Autobiografia di Alice Toklas» della Stein tradotta da Pavese. Massimo Romano
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