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Pavese in terra di CalabriaMio padre era un uomo solitario e silenzioso. Non amava il chiacchiericcio e aveva un rapporto carnale con la madre terra. Quando una sera, però, vide tra le mie mani, seduto accanto intorno alla ruota del braciere scoppiettante, un libro di Cesare Pavese, «Prima che il gallo canti», si illuminò in viso e si mise a raccontare con ampie gesti delle mani, quasi a rivivere i suoi ricordi, aneddoti di quel professore mandato al confino di Brancaleone dal regime fascista e che lui spesso incontrava in compagnia del cugino Angelino Palermiti nelle tante scampagnate a Brancaleone Superiore. Pavese era estasiato dalle nostre vigne, che gli ricordavano le colline delle sue Langhe, aveva con sé sempre qualche libro e l’ombrello appoggiato sul colletto del pastrano. Da dietro gli spessi occhiali ascoltava in silenzio le ultime novità che il cugino portava dalla Marina tra le case basse e le strade lucenti del borgo antico, crocevia di civiltà. Da queste premesse nacque il mio interesse per lo scrittore di Santo Stefano Belbo. Un rapporto che dura ormai da quarant’anni in un lavoro costante di ricerca che ha riportato il confino pavesiano nella mia Brancaleone al centro della sua poetica. Ne sono testimonianza i tanti saggi dei migliori pavesisti del circuito letterario nazionale: Lorenzo Mondo, Elio Gioanola, Gianni Venturi, Mariarosa Masoero, Anco Marzio Mutterle, Vito Teti, Marziano Guglielminetti, Daniela Bisagno, Emanuela Vartolo e Mario Dondero. Pavese ha lasciato ampia traccia del suo passaggio in Calabria nelle poesie di «Lavorare stanca» e nelle «Poesie del disamore», nel romanzo «Il carcere», nei racconti, in «Feria d’agosto», nei «Dialoghi con Leucò» e, soprattutto, nelle lettere che costituiscono autonomamente un vero romanzo epistolare. Sarebbe davvero interessante se la casa editrice Einaudi decidesse, una volta per tutte, di raccogliere in un unico volume gli scritti calabresi di Pavese. La Regione Calabria e il suo assessore alla Cultura potrebbero avviare un’iniziativa in tal senso, con un uso ben mirato delle risorse disponibili. Si offrirebbe un’immagine veramente straordinaria di questa terra e ciò rilancerebbe gli studi pavesiani sotto un’ottica nuova con al centro i mari del Sud. Non è un mare come tutti gli altri. E’ un mare dionisiaco, imbevuto di mito: è il mare di Ulisse. Un bell’esame per la distratta coscienza nazionale, sempre pronta a scaricare sul Sud le sue tante contraddizioni. Dice bene l’amico Metterle: «La Calabria e il suo mare si pongono allora come simbolo necessario di un percorso e un destino: acquisendoli nel repertorio del proprio immaginario, Pavese ha fornito loro un senso e una giustificazione. Selvaggio calabrese e piemontese si pareggiano: mutano solo i colori. Ma è anche vero che il mare meridionale aggiunge la dimensione sacrale, una potenzialità che in precedenza non era attivata». All’inizio del suo confino in terra di Calabria Pavese annota nel «Mestiere di vivere», iniziato a Brancaleone: «Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d’immagini che simile tratto consentirebbe. Subito mi sorprese la coscienza che questo dio non c’è, che io lo so, ne sono convinto, e quindi altri avrebbe potuto fare questa poesia, non io. (…) Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce rosse lunari fossero in Piemonte saprei bene, però, assorbirle in un’immagine e dar loro un significato. (…) Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su materia non piemontese di sfondo». Vennero fuori nel tedio e nell’apparente noia di Brancaleone poesie feconde, «le più belle del mazzo», così pregne di avvenire. Ne è convinto il poeta stesso quando scrive: «L’insoddisfazione, la noia è la molla prima di qualunque scoperta poetica, piccola o grande». Una tranquilla, occasionale occhiata porterà ordine nel suo caos esistenziale e artistico. Pavese rappresentò per i giovani della mia generazione nello schiudersi di cieli lontani una vera «promessa di vita». Il poeta dell’eterna adolescenza che si suicida perché non sopporta, non regge più il peso della solitudine e la certezza che non sarebbe approdato mai a quella maturità che ogni ragazzo insegue per vivere pienamente l’esistenza. Chi si avvicina a Pavese non si stacca più per tutta la vita. Si direbbe che lo scrittore delle Langhe alimenta una vocazione, una passione per la letteratura che trarrà sempre senso e ispirazione nelle sue pagine. Fulcro delle giornate calabresi fu per Pavese il mitico Bar Roma, dove passava la mattinata fino alle dieci, prima di andare sulla spiaggia, a leggere e vomitare poesie: «La mattina Stefano attraversava il paese, la lunga strada parallela alla spiaggia, e guardava i tetti bassi e il cielo limpido, mentre la gente dalle soglie guardava lui. Tra una casa e l’altra appariva il mare e ognuno di quegli squarci coglieva Stefano di sorpresa, come un amico inaspettato». Elio Gioanola vede in «Poetica» (titolo significativo e quasi profetico, testo straordinario di «Lavorare stanca», scritto nell’ottobre del 1935 e confluito poi nelle «Poesie del disamore»), l’anticipo di quell’approdo verso il mito che segnerà di fatto l’esperienza del confino. «Il ragazzo si è accorto che l’albero vive./Se le tenere foglie si schiudono a forza/una luce, rompendo spietate, la dura corteccia/deve troppo soffrire. Pure vive in silenzio./(…) E’ una tenera luce. Il ragazzo non sa/donde venga: ma ogni tronco rileva/sopra un magico mondo./(…) Piega la testa in ascolto/di un ricordo remoto. Nelle strade deserte/come piazze, s’accumula un grave silenzio./(…) Quel silenzio remoto/che stringeva il respiro al passante, è fiorito/nella luce improvvisa. Sono gli alberi antichi/del ragazzo. E la luce è l’incanto di allora». E’ irresistibile il fascino dello sforzo che fanno le foglie per sbocciare. Scrive Gioanola: «Trapela all’incontro di questo gemmare delle foglie dalla corteccia la memoria di qualcosa di originario, che la replicazione del termine “remoto”, ripreso da “antichi”, riporta alle primissime emozioni infantili». Il silenzio è la condizione essenziale per fare poesia e la stessa scommessa dei «Dialoghi con Leucò», il libro più amato da Pavese e dove, prima di suicidarsi, scrisse il suo toccante testamento («Perdono tutti, a tutti chiedo perdono»), si sforzò di strappare il mito al «silenzio delle origini». Il mito altro non è che il grumo di tutte le emozioni vissute nella prima infanzia, l’evento della vita originaria, il luogo della prima volta, il silenzio dell’indicibile che ritornerà all’improvviso al tocco di una campana, nella voce improvvisa di un contadino in mezzo alla vigna, nel rumore della secchia nel pozzo, nel tonfo improvviso di una mela. Esso diventa così rivelazione, estasi, stato di grazia. Nel dialogo «L’isola» sono Calipso e Odisseo che danno corpo all’idea pavesiana del mito come eterno ritorno, idea certamente maturata nelle lunghe meditazioni fatte sullo scoglio lungo di Brancaleone, a trenta bracciate dalla riva, e le tante traduzioni dal greco che ristudiava per la terza volta. Le suggestioni, poi, del «Ramo d’oro» di Frazer erano state troppo forti e coinvolgenti, rimandavano alle antiche civiltà mediterranee dove ora lo scrittore si ritrovava totalmente immerso. I racconti, le lettere e le poesie di Brancaleone vanno rilette in modo unitario, quell’unità da sempre sognata da Pavese e che in ultima analisi si leggono come un vero e proprio poema unitario. Temi che si incrociano e che ritornano fino alla fine della sua esistenza: il fascino misterioso e quasi snervante che viene dal paesaggio calabro, le intricate e frementi passioni che si agitano tra le case basse affacciate sul mare, la bellezza selvaggia e fosca di Concia, vero emblema del mito pavesiano, con l’anfora obliqua appoggiata sui fianchi: personaggio centrale che attraverserà tutta l’opera di Pavese e che nelle sue prerogative di donna–capra racchiude il segreto ancestrale delle più misteriose figure del mito. Questa magra ragazza selvatica viene associata nel «Carcere» alla quaglia nella bellissima scena della caccia con Giannino Catalano (al secolo Oreste Politi): «Anche Concia è una quaglia, anche Concia è una quaglia, si ripeteva inquieto e felice. Mentre tornavano attraverso la campagna nel gran sole, Stefano sapeva che la fresca radura non si sarebbe più staccata nel suo cuore da quella sciocca idea, così come la fulva parola dello scherzo di Giannino s’era incarnata nel corpo di Concia per sempre. Sentì di amare quella gente e quella terra soltanto per questa parola». In fondo con il mito Pavese ha narrato la vita di tutti noi. Dal mito del silenzio al silenzio del mito. Gianni Carteri
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