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Schnitzler, il diario dei sogniArthur Schnitzler (1862-1931) non è stato soltanto il poeta della frivolezza dei sentimenti, delle passioni effimere, della garbata malinconia, ma un critico lucido e impietoso della realtà, della crisi di un mondo e di un’epoca. Esponente della ricca e colta borghesia ebraica della Vienna fin de siècle, figlio di un celebre laringoiatra, si laurea in medicina nel 1885 studiando a fondo i fenomeni dell’ipnosi e dell’isteria. La sua precoce vocazione letteraria lo spinge a scrivere novelle e commedie che gli assicureranno un notevole successo di pubblico, non sempre assecondato dai favori della critica. Come Cechov, anche lui medico e scrittore, potrebbe far suo il celebre aforisma del russo: «La medicina è mia moglie, la letteratura è la mia amante». L’esperienza quotidiana con i suoi pazienti ha costituito un prezioso serbatoio di storie da cui ha attinto per la creazione delle sue opere. Bello e intelligente, è stato un inguaribile seduttore, preso in un vortice di relazioni amorose con attrici, sartine, infermiere, giovani borghesi e affascinanti aristocratiche. Amori fugaci, leggeri come il battito d’ali d’una farfalla, adulteri, infedeltà coniugali che non si risolvono mai in passioni travolgenti, ma nascono da un capriccio, da un bisogno di fuga dal grigiore quotidiano, e riflettono lo squallore morale del tempo, il crollo delle razionali certezze borghesi. Come ha scritto Claudio Magris nella sua tesi di laurea, subito pubblicata nei Saggi Einaudi col titolo «Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna» (1963), «la süsses Mädel, la dolce e un po’ triste fanciulla pronta a darsi all’amore e presto tradita, è un volto della civiltà austroungarica che Schnitzler ha ritratto e trasfigurato con vera magia poetica, e che di quella civiltà tramanda l’aria e il profumo». Schnitzler sa cogliere con grande finezza, sotto una vernice sensuale e frivola, il vuoto esistenziale e le crudeli tragedie quotidiane di un mondo al tramonto. Le sue pagine, quasi sempre impeccabili nello stile, rivelano uno scrittore che affonda il bisturi nei meandri della coscienza, nel segreto dei comportamenti umani. Come Joseph Roth, è stato un attento miniaturista della Vienna della belle époque, con le carrozze e i tram a cavalli, le biciclette e le prime automobili, le luminose primavere e le sere autunnali di vento e di pioggia, le passeggiate al Prater, i furtivi incontri d’amore sotto le luci dei lampioni e la bellezza di minimi dettagli, dalla morbidezza di un manicotto al riflesso del sole attraverso le foglie di un albero. Agli occhi incantati del lettore i suoi personaggi sembrano spettri, fantasmi che giocano alla vita, che si mascherano per rendere attraente il vuoto che nascondono. Dopo il successo ottenuto con «Liebelei» (Amoretto, 1895), «Girotondo» (1897), che ispirerà un meraviglioso film di Max Ophüls, «La Ronde» (1950), e «Il pappagallo verde» (1898), commedie brillanti che mettono a nudo l’altra faccia del perbenismo borghese, Schnitzler legge «L’interpretazione dei sogni» (1899) di Sigmund Freud, un saggio rivoluzionario rispetto al quale prende le distanze. Mentre il padre della psicoanalisi sentiva verso lo scrittore, abile a trasformare in racconto veri e propri casi clinici, una sorta di «timore del sosia», Schnitzler afferma nei diari che tra conscio e subconscio «ci sono parecchi strati, passaggi graduali», definiti con il termine di «medio conscio». E’ questo lo spazio privilegiato dei suoi meravigliosi racconti, come «Il sottotenente Gustl» (1900), lungo monologo interiore di un vile ufficialetto che, offeso nell’onore da un fornaio, trascorre una notte insonne prima del suicidio, unica via d’uscita alla situazione di un militare che non può sfidare a duello un plebeo. E’ appena uscito un volume prezioso per arricchire la figura dello scrittore austriaco, «Sogni 1875-1931» (Il Saggiatore, traduzione di Fernanda Rosso Chioso, pp. 435, 35 euro) di Arthur Schnitzler, a cura di Peter Michael Braunwarth e Leo A.Lensing, curato da Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi nella versione italiana. Il volume è corredato di un prezioso indice dei nomi e delle opere e della riproduzione delle locandine cinematografiche dei film ispirati dai suoi libri. Si tratta di un diario onirico, che raccoglie e annota circa 600 sogni per oltre mezzo secolo, da quello che riflette l’infatuazione del ragazzo tredicenne per Franziska Reich a quello fatto dieci giorni prima di morire per un ictus a cinquantanove anni. Tra vita reale e sogno non c’è per lo scrittore viennese un grande scarto, «il sogno si fa vita, la vita sogno», annota nel 1897, come se si trattasse di una giostra in cui ruotano desideri, amori, paure, gelosie, sotto l’incombere della morte. E’ infatti frequente il sogno di trovarsi al cimitero durante il suo funerale. I suoi sogni tracciano una topografia dettagliata di Vienna: treni, stazioni, teatri, caffè, sale da concerto, scale e corridoi di albergo, gite in bicicletta. E sono popolati dall’intelligencija della capitale: Alma e Gustav Mahler, Kraus, Zweig, Hofmannsthal, Altenberg, Heinrich Mann, Klimt, Beer-Hofmann. E poi ci sono le donne amate: Marie Chlum, attrice conosciuta nel 1889 come paziente nel suo studio medico, a cui fu legato per moltissimi anni da una relazione amorosa; Marie Reinhard, morta nel 1899 per una setticemia, da cui Schnitzler aveva avuto un bambino nato morto, spesso presente nei sogni come «la Scomparsa»; l’infermiera Stefanie Bachrach, morta suicida a trent’anni nel 1917; Suzanne Clauser, traduttrice in francese delle opere di Schnitzler; la moglie Olga Gussmann, attrice di vent’anni più giovane di lui, sposata nel 1903, da cui divorzia nel 1921; la figlia Lili, morta suicida a 19 anni nel 1928, forse la tragedia più dolorosa della sua vita. I sogni si intensificano con il passare degli anni, mentre Schnitzler scrive i suoi capolavori, stupendi racconti lunghi come «Il ritorno di Casanova» (1927), autobiografico ritratto della vecchiaia incombente, «La signorina Else» (1924), scabroso dilemma morale, «Doppio sogno» (1926), che ispirerà l’ultimo film di Kubrick, «Eyes wide shut» (1999), sino agli ultimi disperati, ossessivi e agghiaccianti «Gioco all’alba» (1927) e «Fuga nelle tenebre» (1931) che, attraverso la disgregazione del personaggio e dell’intera società, rappresentano il naufragio della civiltà europea. Per non dimenticare i due unici romanzi che ha scritto, «Verso la libertà» (1908) e «Therese» (1928), percorsi da un antisemitismo strisciante che avvelena la vita culturale viennese, profetico annuncio degli orrori hitleriani. Massimo Romano
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