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Un'intesa, una legge e gli effettiSe il viaggio parlamentare del progetto di legge di riforma del sistema elettorale, il cosiddetto Italicum, presentato da Matteo Renzi alla direzione del Partito democratico (che lunedi scorso lo ha approvato con 111 voti favorevoli e 34 astenuti) andrà avanti nei tempi previsti dal segretario-sindaco di Firenze, e metterà insieme la maggioranza di governo e quella complessiva delle due Camere (composta anche da partiti che non fanno parte della prima), sarà un bel miracolo. Almeno rispetto a una tradizione che ha reso la democrazia italiana un rebus difficile da decifrare e da raccontare a un pubblico di elettori che (forse) non ne può davvero più, al punto da rischiare di affidarsi alle concioni grillesche, incomprensibili ma in grado di creare realtà politiche altrove inconcepibili. I commenti sul progetto di legge renziano sono stati pressoché unanimi fra i commentatori “neutrali”, soprattutto grazie alla proposta di lasciare il verdetto ultimo delle urne al “doppio turno”, se nessuna lista o nessuna coalizione abbia raggiunto al primo turno come minimo il 35 per cento dei votanti. In tal caso, quindici giorni dopo gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi fra i due primi concorrenti rimasti in gioco. Al vincitore andrà il 53 per cento dei seggi alla Camera o al Senato (se non si farà in tempo a riformare drasticamente quest’ultimo prima delle prossime elezioni), grazie a un premio di maggioranza al massimo del 18 per cento. Ma se al primo turno qualcuno avrà raggiunto il fatidico 35 per cento dei consensi, la legge gli assicura, grazie sempre al premio di maggioranza del 18 per cento massimo, il 55 per cento dei seggi alla Camera (o al Senato). Il restante 45 per cento sarà diviso fra coalizioni e partiti non arrivati al ballottaggio, in proporzione ai risultati ottenuti nel primo turno. Un’altra norma decisiva sarà la soglia di sbarramento per i concorrenti: il 12 per cento dei suffragi popolari per le coalizioni in lizza, il 5 per cento per le liste che ne fanno parte e addirittura l’8 per cento per i partiti che si presentano da soli. Sia il ballottaggio, sia le soglie di sbarramento e sia, infine, la riduzione dei componenti delle liste a cinque per ognuno dei collegi, in modo da consentire una maggiore conoscenza dei candidati da parte degli elettori, e aumentando in tal modo la rappresentatività reale degli eletti, sono i punti si cui si è maggiormente espresso il consenso degli “esperti”, rispetto alla motivazione della sentenza con cui la Consulta ha dichiarato parzialmente incostituzionale il Porcellum. Ma i dubbi restano e non sono irragionevoli. Almeno due: la misura davvero troppo bassa della percentuale dei voti ottenuti al primo turno (il 35 per cento: in genere si dichiara che potrebbe essere soddisfacente almeno il 40 per cento) necessaria per ottenere il premio di maggioranza; e le liste dei candidati che, nonostante la riduzione a cinque, restano pur sempre “bloccate” nelle mani delle segreterie dei partiti e non in quelle degli elettori (il Nuovo centro-destra di Alfano chiede il ritorno alle preferenze, abrogate da un noto referendum). A questo proposito Renzi propone comunque il sistema delle primarie in tutti i partiti, che consenta ai cittadini simpatizzanti di scegliere su chi candidare. Questa legge proposta dal segretario del Pd per cambiare il sistema elettorale e togliere potere e peso ai “partitini”, finora arbitri delle coalizioni con i maggiori, avrà naturalmente degli effetti politici. Sia sul suo partito, sia sugli altri. Fra i democratici, la ragione è semplice: la minoranza che possiamo definire “bersaniana” e comprende soprattutto personalità più accentuatamente “di sinistra” che si sono astenute dal voto di lunedì scorso, ma hanno visto uscire quasi in lacrime il presidente del Pd Cuperlo, «non convinto» e poi addirittura attaccato duramente da Renzi nella replica finale, non accetta l’idea che possa esserci una «ampia intesa» con Berlusconi, un «pregiudicato» in attesa di nuove condanne. Intanto, Cuperlo si è dimesso dalla presidenza con una lettera dai toni drammatici, allarmato com’é «da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e di pensiero». Che seguito avrà nel partito, non è al momento facile da immaginare, ma certo qualche effetto ce l’avrà. Del resto Renzi, mostrando addirittura «gratitudine» per Berlusconi, ha fornito un nuovo elemento di rottura con la propria sinistra, che gli rimprovera di avere «resuscitato» il Cavaliere, riconoscendogli la inesauribile leadership della rinnovata Forza Italia proprio mentre fra meno di tre mesi (il 10 aprile, per la precisione) il Tribunale di Milano dovrà decidere su come sconterà la pena per frode fiscale, se ai domiciliari o ai servizi sociali, immerso nella fatale irrilevanza politica, fuori dal Parlamento. Ma questa «gratitudine» renziana per lui potrebbe anche significare, per l’opposizione interna, un trasloco di elettori del Pd verso i lidi vendoliani o degli ormai inverosimili “rifondatori” del Pci. Anche in FI ci sono tuttavia dei malumori, perché un Berlusconi in apparenza e all’improvviso incline al “renzismo” può fargli perdere voti, destinati ad arricchire il bagaglio elettorale del M5S. Mentre il Ncd teme il contrario: di dover andare a chiedere scusa a Berlusconi per averlo “tradito” accettando di andare e di restare al governo con il Pd; contemporaneamente alle ristrettezze in cui vive la Lega, in dissoluzione, senza più alleati, in crisi giudiziaria in Piemonte, e anch’essa a rischio di emigrazione grillina dei suoi storici ma delusi elettori. Infine, c’è Enrico Letta e c’è il suo governo, che di giorno in giorno sembra avviato non già a un “rimpasto” ma addirittura a un “Letta bis”, a tempo determinato dal seguito dei programmi riformatori di Matteo Renzi (abolizione del Senato e revisione del Titolo V della Costituzione sui rapporti fra Stato e Regioni). Il premier si dice più che mai convinto di dovere e potere procedere in tempi brevi a un «contratto di governo» in grado di assicurargli una durata sufficiente a guidare il semestre italiano dell’Unione europea, e soprattutto ad approfittare dei primi timidi segnali di ripresa produttiva del Paese per il suo rilancio economico-finanziario. Questo il quadro complessivo, e naturalmente provvisorio, di una situazione politico-strategica che Matteo Renzi cerca di dominare fino in fondo, rapidamente, concretamente, e andando con coraggio oltre il ventennio di antiberlusconismo che, come ogni altro fenomeno pur storicamente ed eticamente caratterizzante in negativo un’epoca, potrebbe rivelarsi ben presto inutile e anzi controproducente rispetto al bene comune del Paese. Beppe Del Colle
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