Le "novità" del mercato

Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i segnali di una moderata, ma sicura, inversione di tendenza nelle dinamiche dell’economia italiana. Dopo i dati della produzione industriale, commentati nello scorso numero, l’Istat ha reso pubbliche le stime del fatturato e degli ordinativi dell’industria, sempre relativi a novembre 2013, che rendono finalmente conto di un lievissimo recupero anche della domanda interna. Il fatturato dell’industria nel suo complesso cresce a novembre dello 0,4 per cento a parità di giorni lavorativi rispetto allo stesso mese del 2012, per la prima volta dopo 22 flessioni consecutive.

Anche se la principale componente di tale incremento va ancora ricercata nella domanda estera, la vera novità segnalata dall’Istat risiede nella ripresa del mercato interno, dove il dato, per quanto ancora negativo, è il migliore dalla fine del 2011, mentre gli ordini, che anticipano le dinamiche di produzione e fatturato dei mesi successivi, a novembre registrano nella loro componente interna un incremento del 5,5 per cento, a fronte di una sostanziale stazionarietà degli ordini esteri. L’Istat segnala inoltre che, depurando il dato del fatturato industriale dalle performance del settore energetico, molto volatili e in questo caso fortemente negative, i ricavi manifatturieri in senso stretto a novembre portano il loro incremento al 2,1 per cento rispetto a dodici mesi prima. Un recupero generalizzato, ma comunque particolarmente evidente nei comparti della farmaceutica, dell’elettronica e dei macchinari.

I dati in oggetto, unitamente a quelli della produzione, sono compatibili con una dinamica sia pur molto lievemente positiva del Pil nel quarto trimestre del 2013, che segnerebbe la fine della più lunga e profonda recessione dell’economia italiana negli ultimi settant’anni. Un’aspettativa in cui confida anche il recentissimo Bollettino economico della Banca d’Italia, che conferma l’aumento della produzione industriale negli ultimi tre mesi dell’anno, il recupero dei livelli di fiducia e un consistente processo di ricostituzione delle scorte di magazzino, che anticipa un’accelerazione delle vendite per i primi mesi del nuovo anno.

Se dunque sul piano produttivo tutto sembra evolvere positivamente verso un 2014 in cui il Pil sarà caratterizzato da una crescita ragionevolmente compresa tra lo 0,5 e l’1 per cento, ben diverso continua ad essere il quadro occupazionale, ma, va detto con estrema chiarezza, sarebbe ben strano il contrario. Infatti, senza arrivare agli eccessi di chi paragona gli effetti della grande recessione degli ultimi cinque anni a quelli di una guerra, non si può negare che la perdita di oltre nove punti di Pil e di quasi un quarto della produzione industriale dal 2007 ad oggi, unitamente agli effetti della messa in sicurezza del sistema previdenziale nel 2012 e del progressivo venir meno del ruolo dello Stato come fonte di nuove assunzioni, rappresentano per il mercato del lavoro italiano un autentico cambiamento di paradigma.

Purtroppo, nell’ultimo quinquennio si è assistito al sovrapporsi della prima fase della recessione, originariamente legata ad eventi relativi al mercato finanziario statunitense ma che hanno ben presto contagiato il settore reale dell’economia anche in Europa, con la crisi del debiti sovrani dell’Eurozona, sulla quale le responsabilità interne ai Paesi “periferici” della moneta unica appaiono predominanti. L’Italia, in questo contesto, è stata costretta a por mano al consolidamento finanziario nel momento meno appropriato (cioè durante una recessione già conclamata) e la restrizione dei conti pubblici non ha potuto non aggravare gli effetti della crisi. Ma è evidente che se l’aggiustamento dei conti pubblici, e in particolare la manovra sul sistema previdenziale, fossero state effettuate negli anni precedenti, con l’economia ancora in crescita, gli effetti sarebbero stati decisamente più lievi. A ciò tuttavia non si può non aggiungere la consapevolezza dell’ampliamento della strutturale dicotomia del nostro sistema industriale, diviso tra un nocciolo duro di imprese fortemente dinamiche, di dimensioni adeguate, orientate all’innovazione e fortemente competitive sul mercato internazionale, e una miriade di operatori posizionati sul mercato interno, spesso piccoli e piccolissimi, per i quali l’internazionalizzazione dei mercati di sbocco, fondamentale per ridurre gli effetti negativi del crollo della domanda interna, si è rivelata sostanzialmente impossibile.

Se quindi si pone mente alla gravità della “tempesta perfetta” che si è così abbattuta sul mercato del lavoro italiano, ci si potrebbe sorprendere che la situazione non sia ancora peggiore dell’attuale. Infatti, mentre la recessione bloccava i flussi di giovani in ingresso e la struttura dualistica delle protezioni (fortissime nel settore pubblico, molto forti nelle medio-grandi imprese private e per i contratti a tempo indeterminato) scaricava l’aggiustamento prevalentemente sulle forme contrattuali atipiche dei giovani occupati, la riforma del sistema previdenziale prolungava (giustamente) la vita lavorativa e manteneva in attività molti ultrasessantenni che in caso contrario sarebbero andati in pensione, bloccando ulteriormente il turnover a danno dei giovani.

Oggi, quindi, accanto ad un tasso di disoccupazione pressoché raddoppiato rispetto al 2007, ci si trova di fronte anche ad un numero estremamente elevato di cassintegrati (che nelle statistiche Istat sono considerati occupati) che dovrà essere progressivamente riassorbito se e quando la lievissima ripresa lo renderà possibile. E una crescita inferiore all’1 per cento annuo non può creare nuova occupazione in quanto perfettamente sostenibile con l’incremento naturale della produttività del lavoro. E quindi, in assenza di politiche veramente incisive, l’elevatissimo divario tra il tasso di disoccupazione globale e quello giovanile è destinato a mantenersi tale molto a lungo.

La tesi contenuta nel Bollettino di Bankitalia appare del tutto confermata dal Rapporto, appena pubblicato, dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) che per il 2014 in Italia stima un aumento del tasso di disoccupazione complessivo al 12,6 per cento contro un dato medio del 12,2 nel 2013, mentre nel biennio 2015–2016 si dovrebbe assistere ad un ulteriore peggioramento fino al 12,7 per cento. Sempre secondo l’Ilo, il calo occupazionale in Italia colpisce prevalentemente i giovani, mentre per le fasce di età tra i 55 e i 64 anni tra il 2007 e il 2012 s’è addirittura assistito ad un incremento dell’occupazione. Dati sconcertanti, ma che non stupiscono alla luce di quanto precedentemente rilevato con riferimento ad un sistema che protegge i posti di lavoro a tempo indeterminato e che ora impone agli anziani di rimanere attivi più a lungo.

Una conseguenza del tutto prevedibile di tutto ciò, in assenza di politiche attive del lavoro (che va detto, non si fanno senza risorse e senza un profondo ripensamento del welfare pubblico) è la triste posizione dell’Italia per quanto riguarda i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training) ossia i giovani che dichiarano di non lavorare, di non cercare lavoro e non sono impegnati in attività di formazione. L’aumento del peso di questo gruppo sociale rappresenta in modo estremamente chiaro il rischio più che concreto di dare vita ad una vera e propria “generazione perduta” che resterà permanentemente esclusa dai circuiti ufficiali del mercato del lavoro, alimentando la spesa assistenziale, le prestazioni d’opera irregolari o peggio.

Antonio Abate

 



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