Renzi e il lavoro cosa va e cosa no

Primi segnali di ripresa per l’economia italiana. Ma la disoccupazione continua a crescere, battendo un record dopo l’altro. La categoria più colpita resta quella dei giovani: il 41,6 per cento è senza lavoro. E così il Partito democratico mette sul tavolo la carta delle riforme e propone il Job Act, una serie di interventi per rendere più flessibile, moderno ed europeo il mercato del lavoro.

Assegno universale per chi perde il posto, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro. Riduzione della tipologia dei rapporti, con l’intenzione di arrivare a un contratto di inserimento a tempo indeterminato per i giovani al primo impiego. E poi incentivi per alcuni settori decisivi per l’economia italiana, primi tra tutti nuove tecnologie, turismo e cultura. Questi i punti decisivi del testo, a cui fanno seguito il tagli dell’Irap del 10 per cento per le aziende, pagamenti elettronici, investimenti sulla rete, semplificazioni amministrative, tra cui l’eliminazione dell’iscrizione alle Camere di Commercio, flessibilità per i dirigenti della pubblica amministrazione. Le proposte saranno articolate in sette settori, tutti con un unico scopo: creare posti di lavoro.

Cauto il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, secondo cui la proposta non è innovativa e soprattutto troppo costosa. È soddisfatto, invece, il commissario europeo al lavoro Lorenzo Andor, che definisce le proposte in linea con le raccomandazioni Ue. Plauso anche dalla Cisl. «Bisogna discuterne approfonditamente», ha sottolineato il segretario Raffaele Bonanni, «ma tendenzialmente siamo favorevoli. Il lavoro si può creare solo con la buona economia, ma il giudizio è positivo. La misura sulla quale sono maggiormente d’accordo è quella che consente di riassumere attraverso un contratto di lavoro tante altre persone, a partire dalle false partite Iva, che di solito sono usate per pagare meno la gente». Più contenta Susanna Camusso, segretario della Cgil. «Che si dica esplicitamente che bisogna ridurre le forme del lavoro è una novità assolutamente inaspettata: fino a oggi lo dicevamo solo noi». Di parere opposto Giorgio Cremaschi, membro del Comitato direttivo, in corrente di minoranza. «Ci sono almeno tre ragioni per dire no al Job Act di Renzi e per contrastarlo», ha dichiarato. Mentre la Fiom si è, per ora, limitata a condividere il fatto che bisogna rimettere al centro dell’agenda politica il lavoro e che ci sono tante cose da cambiare in questo Paese.

Intanto per reperire le risorse arriva la proposta delle associazioni dei consumatori: una seria lotta all’evasione fiscale. «Se tutti pagassero le tasse si potrebbero avere risorse da investire nella creazione di posti di lavoro, ma è necessario abbattere in breve tempo tutti gli ostacoli che non permettono di condurre tale lotta in maniera puntuale e rapida», ha suggerito Pietro Giordano, presidente di Adiconsum. Ma i punti toccati dal Job Act vanno davvero nella giusta direzione? L’abbiamo chiesto al professor Emilio Reyneri, ordinario di Sociologia economica all’Università Bicocca di Milano.

Corsi di formazione obbligatori, riforma del collocamento, riduzione della tipologia dei rapporti di lavoro e contratto unico di inserimento. Questi interventi possono essere utili per far crescere l’occupazione?

Sicuramente per la prima volta dopo molti anni si è fatto un passo avanti, perché oltre alla necessità di cambiare le regole si parla di puntare su alcuni settori in particolare. Si fa dunque un discorso di politica industriale: è un buon segnale, anche nei Paesi più liberisti, infatti, si parla di queste cose. In questo momento serve soprattutto decidere quali settori potenziare e decidere dove fare investimenti. Perché questi interventi possano avere un impatto decisivo è però fondamentale che riparta l’economia: le proposte del Job Act possono agevolare le assunzioni, ma solo la ripresa della domanda, e dunque la vendita delle merci, può dare un forte stimolo economico alle imprese. Per quanto riguarda le altre indicazioni, invece, tutto si giocherà sui dettagli.

Cioè?

Ridurre le forme contrattuali e dare garanzie crescenti, per esempio, è giusto, perché le aziende negli ultimi anni hanno giocato molto su contratti a tempo determinato e collaborazioni, mentre si sarebbe potuto semplicemente allungare il periodo di prova, che oggi è di tre mesi per i lavori di tipo impiegatizio e di uno per quelli manuali: un sistema che può funzionare quando il lavoro è standardizzato, non quando ci sono picchi di complessità in momenti saltuari. Direi che oggi una prova di un paio d’anni sarebbe più ragionevole. Questa misura, però, avrebbe potuto essere una buona arma di scambio che i sindacati avrebbero potuto usare già dieci anni fa, per evitare l’eccesso di precarietà che poi si è verificato.

Come andrebbero riformati, invece, i servizi per l’impiego?

Siamo l’unico Paese europeo che non ha un’agenzia nazionale per il lavoro. Il nostro sistema è molto frammentato. Tutto è in mano alle Regioni e alle Province, realtà che non dialogano tra loro e che hanno banche dati differenti. Così se una persona cambia residenza è costretta a ricominciare tutto daccapo. E poi adesso le Province sono state abolite e nessuno sa che fine faranno i loro centri per l’impiego. Questa situazione è il risultato del federalismo amministrativo del ’97. Ma ormai il sistema si è rivelato inefficace ovunque, persino al Nord, e la frantumazione ha moltiplicato i costi in modo esorbitante. Teniamo poi presente che in Italia è l’Inps che dà il sussidio di disoccupazione e la cassa integrazione. All’estero, invece, è la stessa agenzia per il lavoro nazionale che se ne occupa: così i lavoratori sono obbligati a recarsi all’agenzia almeno una volta al mese per ritirare i soldi e si può controllare che le persone non svolgano lavori in nero e che si diano da fare per trovare un’occupazione. Intervenire su questi ambiti, però, pone problemi delicati, perché per Costituzione le competenze sono regionali: occorre dunque riformare il titolo Quinto della Carta fondamentale, tema su cui comunque mi sembra di vedere un generale accordo delle forze politiche, tranne la Lega. Servono poi molte risorse economiche per cambiare tutto il sistema.

Una delle principali obiezioni al Job act è proprio la sua consistenza economica. La lotta all’evasione fiscale può essere fonte di risorse decisive per il lavoro?

L’evasione fiscale è un problema molto grave. Ma è difficile da controllare sul breve periodo. Serve un’azione costante e certa, come avviene negli altri Paesi. Da noi, invece, ogni volta che Equitalia fa un’azione clamorosa viene attaccata. Bisogna essere coerenti, è un fenomeno che non scomparirà mai del tutto. Ma interventi costanti nel tempo e che non facciano mai marcia indietro potrebbero portare a una riduzione consistente dell’evasione tra una o due legislature. Nel breve periodo sono un po’ scettico, al massimo si può alleggerire la pressione fiscale. Per sostenere le misure del Job Act, invece, si stanno profilando altri interventi, più consistenti, misure ancora vagamente accennate, che ne nascondono altre di carattere semi-patrimoniale. Non c’è ancora nulla di certo, staremo a vedere. I soldi, comunque, si possono trovare.

Cristina Conti



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