![]() Accesso utente |
Cécile, inquietante sbaglioL’estate scorsa era stata la stagione della riconciliazione, almeno osservando le immagini di un sindaco leghista di spicco, Flavio Tosi, segretario nazionale della Liga veneta e primo cittadino di Verona, che in odore di candidatura alla segreteria della Lega Nord scelse di stringere la mano alla ministra Cécile Kyenge, giunta nella città scaligera per partecipare all’inaugurazione dell’«African summer school». Un gesto che abbassò momentaneamente le tensioni sollevate dalle affermazioni offensive di Roberto Calderoli e dal mancato intervento di Roberto Maroni, allora segretario del Carroccio, nel ristabilire un clima civile. L’interpretazione delle immagini, che riprendono la stretta di mano tra il sindaco veneto e la ministra, a distanza di pochi mesi solleva alcune dietrologie di scarsa importanza, o meglio, ascrivibili a opportunistiche tattiche politiche. Quello che resta è invece un controluce inquietante, che fa di questa donna politica di origine congolese il capro espiatorio, suo malgrado, di una pulsione razzista irrazionale e violenta. «Il colore della sua pelle dà fastidio. L’evidente diversità, esposta per lo più a livello istituzionale, è uno smacco. Perché Cécile Kyenge racconta l’esistenza di un’immigrazione normale, tranquilla, che riesce ad interagire bene con la società italiana, tanto da assumere persino un ruolo di massima importanza. E ciò irrita molto. Perché come si può continuare a predicare alla pancia degli italiani la paura verso gli immigrati, se c’è un esempio autorevole al governo?» Suor Elisa Kidanè, missionaria comboniana di origine eritrea, dal 2012 direttrice del mensile «Combonifem», osserva i fatti che riguardano la ministra all’Integrazione da giornalista, scrittrice, poetessa, ma anche da donna africana, profonda conoscitrice dei problemi legati all’immigrazione e del difficile cammino dell’interazione tra culture. «L’aggressività che si sta scatenando contro Kyenge credo che stia raggiungendo livelli inaccettabili, anche per il fatto che si tratta di una donna. Basti vedere con quale veemenza ci si è scagliati sia contro Josefa Idem, sia contro Laura Boldrini. Un livore che trascende le ragioni della libertà di opinione e delle specifiche recriminazioni, e che mi ferisce specialmente quando ad inveire sono proprio le donne». E’ soprattutto per l’evidente diversità che Kidanè si spiega le reazioni della Lega e di altri partiti condensati nell’estrema destra, che hanno fatto della ministra all’Integrazione un facile e pretestuoso capro espiatorio. «Nell’immaginario collettivo l’extracomunitario ha la pelle nera e la sua identità è oggetto di tanti stereotipi. Kyenge invece dimostra che qualcosa sta cambiando, e che la società italiana non è destinata a restare un piccolo villaggio», sottolinea la religiosa. In realtà, i confini culturali in cui il Paese sta vivendo sembrano essere di fatto molto ristretti, nonostante una storia nazionale articolata e complessa, in cui gli italiani hanno sia conosciuto la durezza dell’emigrazione, sia l’esperienza della colonizzazione. Per colpa delle «poche letture, di una tivù che ci ha resi passivi, poco curiosi di conoscere, sensibili alle sollecitazioni di chi urla più forte, le istigazioni che provengono da queste frange politiche incontrano un’opinione pubblica impreparata», continua Kidanè, «che subisce l’attenzione incessante da parte dei media, i quali però difficilmente propongono un approfondimento degli argomenti importanti che competono la ministra. Il risultato è che alla lunga le persone si convincono che a dar fastidio non sia tanto il rumore sollevatosi intorno a Kyenge, quanto piuttosto che sia proprio lei il problema. Ancora una volta rischiamo che a decidere sia la pancia, strumentalizzata da polemiche televisive sterili». Contestazioni che toccano anche livelli paradossali, come è avvenuto con le affermazioni di Massimo Bitonci, capogruppo al Senato della Lega Nord, che ha accusato Kyenge di «voler favorire la negritudine come in Francia». «Anche in questo caso si è usato un termine fuori contesto, sminuendone il significato e la ricchezza», sottolinea Kidané. «Un gesto insulso, che mira solo a creare timore in chi non ne conosce il senso e allo stesso tempo per negarne il valore. Invece è una delle parole più belle del vocabolario africano, che riporta alla consapevolezza della propria identità, elevando l’essere neri a una filosofia, a una visione del mondo, dopo secoli di sfruttamento e di colonizzazione». Una delle accuse ripetute sistematicamente contro Kyenge riguarda la mancanza di azioni politiche e di essere un ministro improduttivo. «Stiamo parlando di un incarico senza portafoglio, quindi dagli strumenti limitati», continua Kidané, «istituito da un governo che solleva molte perplessità. Nonostante gli ostacoli siano oggettivi, in realtà il suo lavoro sta affrontando temi cruciali, come l’abolizione del reato di clandestinità e la legge sullo ius soli. Due questioni delicate che richiedono grande coraggio e sono politicamente scomode». Riflesso di un’immigrazione esistente ma non percepita, e che modifica l’immaginario che riduce gli stranieri a lavoratori subalterni alla società italiana, Kyenge rischia di diventare un facile bersaglio per diverse frange. Donna, nera, di potere: un salto sostanziale rispetto ad un’altra figura femminile di colore che fece discutere anche con toni pesanti l’Italia nazionalpopolare. Era il 1996 e la questione era una miss Italia, Denny Mendez, nativa di Santo Domingo ma cresciuta a Montecatini Terme, dai canoni estetici ritenuti non rappresentativi del Belpaese. Anche oggi come allora, e su fronti ben più cocenti, c’è chi discute della mancanza di legittimità a rappresentare la nazione da parte di una donna dalla pelle scura. In quasi vent’anni la discussione, con toni certamente più grevi, si è trasferita dalla protagonista di un concorso di bellezza ad una rappresentante delle massime istituzioni: un’evoluzione di contesto che se ha visto crescere, con grande lentezza, fatica, e numerosi passi indietro, il peso delle donne (non solo quelle straniere) nei posti dirigenziali, non ha registrato pari trasformazione nella società. Anzi, il contesto e la nuova protagonista dimostrano che una parte non irrilevante del Paese è socialmente e culturalmente rimasta ferma troppo a lungo. A maggior ragione colpisce il sostanziale silenzio che proviene dalle istituzioni, civili e religiose. «Se non si reagisce temo che alla lunga si legittimerà ogni cosa, spacciandola per libertà di opinione», continua Kidané. «Il passo per arrivare al linciaggio è breve, non soltanto nei confronti di Kyenge, ma anche dei milioni di stranieri che vivono in Italia. Basti guardare cosa accade negli stadi, in cui i calciatori neri sono costretti a interrompere la partita e la violenza xenofoba gode di una libertà pressoché totale. Non accorgersi di questi fatti, apparentemente banali, e non reagire con fermezza può portare a derive gravissime, di cui ci si pentirà». La critica non è rivolta soltanto alla politica, ma anche alla Chiesa, che finora non si è espressa apertamente. «Quando ci furono le esternazioni ingiuriose del vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, come missionarie comboniane diramammo un comunicato in cui esprimevamo la nostra solidarietà alla ministra e invocavamo seri provvedimenti contro quelle provocazioni offensive. Al nostro appello non seguirono tante altre esternazioni: mi dispiace soprattutto che ci sia stato un sostanziale silenzio da parte della Chiesa e della Conferenza episcopale. E oggi, che vediamo proseguire questa campagna di attacchi, è ancora più grave, dato che lo stesso papa Francesco ha sollecitato i religiosi a risvegliare il mondo ed essere profeti. Ma se non prendiamo posizione davanti a questi fatti, probabilmente significa che essi non costituiscono anche nel nostro contesto un nervo scoperto. Viviamo in un certo stato di assuefazione generale che siamo incapaci di moti di dignità. Forse, alla fine ci va bene tutto». Fabiana Bussola
|