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Addio a tre grandi poetiI poeti medievali riconoscevano una perfetta geometria armonica che sfugge alle leggi di Euclide, servendosi anche di numeri e coincidenze, degni di rappresentare un significato simbolico e sacrale. Basta citare Dante, che per rappresentare l’armonia dell’universo impone una struttura ternaria al più grande poema della storia letteraria universale. Sarà un caso, ma il turbamento nell’apprendere la notizia della morte di tre poeti, grandi nell’interpretare i segni che trasformano briciole di parole in armonia, diversi tra loro ma uniti da una simbolica coincidenza, ha acceso nella mente l’idea e la speranza che le loro esistenze avessero un posto nel disegno provvidenziale dell’eterno. Nella loro storia, infatti, c’è una concatenazione di elementi che rientrano in quella misteriosa geometria che unisce personaggi di differente formazione e scuola: tre stelle che senza volerlo sono diventate una costellazione per il loro silenzioso e sincronico congedo. Il primo elemento è appunto la concatenazione della loro partenza, come se avessero un convegno nell’altrove, tutti e tre maestri nell’incidere parole in composizioni che duravano mesi, anni, come se le loro sillabe fossero cellule che continuavano ad accrescersi di significati. Tre grandi che avevano incantato i lettori, tessendo rapporti profondi in chi ha avuto il privilegio di conoscerli nella vita e sulla pagina. Tre grandi lontani dalle fanfare, dai conviti del superfluo, che coltivavano parole come fiori di un orto concluso millenario, ma che tuttavia in tempi come i nostri, in cui si riserva lo stesso trattamento a un autore o a un detersivo, passeranno alla storia per la loro condivisa unicità. Il primo a partire è stato Giorgio Orelli, nato il 25 maggio 1921 ad Airolo, nel canton Ticino, ma definito da Contini «toscano di Svizzera» per la purezza della lingua intrisa di memoria. Convinto assertore della «corporeità ritmica» delle parole, è stato uno studioso appassionato dell’intima convergenza di significante e significato nei poeti da lui amati (Dante, Tetrarca, Foscolo, Pascoli, Montale), tessendo una stupefacente ragnatela con rimandi continui ad altre mani e altre tele, per testimoniare la loro straordinaria capacità di vivificare ogni sillaba in un ordine nuovo. Un poeta è sempre figlio di qualcuno, diceva Orelli in «Accertamenti montaliani» del 1984 e questa fedeltà ai modelli gli aveva permesso di permeare anche i suoi registri poetici di fatti e del parlato quotidiano, immergendoli in «un’aura sanza tempo tinta» e al tempo stesso contemporanea, puntando su oggetti concreti, presenti nel qui e ora di un momento, ma con una valenza di eccezionalità esemplare. Poteva essere un colore, un fiore, un uccello o il cerchio familiare, una «scorza che dura oltre la morte, / e tutto è fermo in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo: / nel cerchio familiare / da cui non ha senso scampare». Ai saggi critici, veri e propri capisaldi per gli addetti ai lavori, Orelli affiancava così la moneta sonante della sua arte poetica, che esercitò fino all’ultimo istante con la stessa ironia linguistica che allargava le sue spire alla rappresentazione drammatica dell’esistenza, resa partecipe dell’impegno “naturale” e corale davanti alle storture del mondo. Le sue raccolte hanno la forza rappresentativa di Lucrezio, calandosi nell’osservazione puntuale di vicende naturali e umane, illuminando le parole di cose. Una delle sue traduzioni dal «De rerum natura» riguardava i colori delle piume dei colombi e non è un caso che questi scarni dati si affaccino anche nei titoli dei suoi libri: «Né bianco né viola» del 1944, «Sinopie» (Terra rossa di Sinope, città del Mar Nero) del 1977, «Spiracoli» (fessure nella roccia da cui entrano soffi d’aria) del 1989, «Il collo dell’anitra» del 2001. Il secondo poeta, nato a Vicenza il 30 luglio 1931, è Fernando Bandini, che personificava «In modo lampante» (titolo della sua prima raccolta del 1962) la volontà di scoprire la forma poetica perfetta per rappresentare gli aspetti della bellezza, anche restituendo fiato a lingue morte o desuete, senza mai distaccarsi dal suo paesaggio. Non è un caso che fosse legato a Zanzotto e alla fedeltà alle radici, alla vitalità e nostalgia di una tradizione antica. Maestro di rime in tre idiomi, italiano, vicentino e latino, come per seguire un viaggio a ritroso nella memoria dell’infanzia, nella vitalità della sapienza antica e popolare, Bandini restituiva così pari dignità alla tradizione lirica, intonando un canto lieve che orchestra malinconia e stupore, lessico dantesco e virgiliano, ma anche lingue di altri mondi, per salvarli dall’usura del tempo, testimoniando che memoria del passato e «Memoria del futuro» (1969) possono avere una perenne fioritura in altre voci. La testimonianza più alta è racchiusa nel trittico della maturità, «Santi di dicembre» (1994), «Meridiano di Greenwich» (1998), «Dietro i cancelli e altrove» (2007), ma era già evidente in «La mantide e la città» (1979), dove l’inno a Venere di Lucrezio e il suono dei clacson entravano a far parte dei «lucidi rigori» della Quarta di Brahms. Il terzo poeta, nato a Parma il 29 maggio 1927, è Pier Luigi Bacchini, che ha sviluppato un bilinguismo interno, che concilia oggettività e soggettività, mondo esterno e mondo interiore, razionalità e intuizione, «creazione» e «sapienza», ovvero conoscenza profonda della realtà scientifica delle cose. In tutti i suoi testi, raccolti di recente nell’Oscar Mondadori «Poesie 1954-2013» (a cura di Alberto Bertoni, con una completa bibliografia curata da Camillo Bacchini), c’è un preciso riscontro che riconduce all’essenza di studi e scoperte evoluzionistiche, da sempre al centro dei suoi interessi, chiamando perentoriamente in causa il modello principe di questa visione concreta del mondo, quel Lucrezio presente anche in Orelli e Bandini, per testimoniare che la scienza della natura si apparenta con la morale, la serenità del vivere e del morire, perché ogni esistente sulla terra è natura. Anche l’epica del mondo di Bacchini mira a ricostruire un’unità perduta, mettendo a confronto la devastazione e gli scempi con l’equilibrio millenario che si rigenera da una stagione all’altra, intessendo versi che rispecchiano gli esseri viventi, l’uomo e l’infinitamente piccolo, l’atomo e l’embrione, scanditi da un «rigoroso armonium»: «Chiave di violino, linea di pentagramma /dentro un medesimo delirio di creazione – /Ma intanto soffrivo sopra l’erba / dove anche un ramo disseccato /è una pausa del ritmo evolutivo,/ la cesura d’un verso». Lo stesso «armonium» sembra avere diretto anche la loro morte, con un metronomo dalla scansione esatta: Orelli, Bandini e Bacchini se ne sono andati uno dopo l’altro, in tre mesi e sempre in un giorno di festa. Sono proprio queste microscopiche circostanze che giustificano il sospetto adombrato in esordio che Voltaire avesse ragione nel dire che il caso non esiste, perché tutto ciò che accade ha una sua ragione d'essere, tanto da motivare lo stupore di chi resta per questa triplice partenza e per le affinità che li ha stretti in una stessa sorte. Tre poeti diversi, ma legati da affinità sostanziali quali la fedeltà al «cerchio familiare», il rigore, la gentilezza, la «leggiadria» che Dante ravvisava nella nobiltà d’animo, di comportamento, di distacco dal bla-bla pubblicitario e mercantile della novella editoria. Perciò ci piace pensare che si siano dati un appuntamento nell’aldilà per ritrovarsi nello stesso Olimpo, certi di avere tante altre cose da spargere sulle pagine che hanno lasciato aperte sulle loro scrivanie, capaci di generare altre cellule come accade per gli organismi viventi. Per questi motivi li ho elencati senza rispettare la cronologia della nascita ma quella della partenza, che forse solo per caso è avvenuta per tutti e tre in un giorno in cui si parla con il cielo: Giorgio Orelli ha spiccato il volo domenica 10 novembre 2013, Fernando Bandini il giorno di Natale 2013 e Pier Luigi Bacchini domenica 5 gennaio 2014. Si sono allontanati così, in punta di piedi e di penna, come erano vissuti, nel silenzio di un’intimità che non avevano mai tradito, incuranti della fama proprio perché conoscevano troppo bene la gloria della lingua, quella che non ha scadenze imposte da un’etichetta del mercato. Giorgio Orelli, Fernando Bandini, Pier Luigi Bacchini, sapevano perfettamente che «non è il mondan romore altro ch'un fiato/di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,/e muta nome perché muta lato» (Pg XI), attenti a limare i loro versi senza rincorrere editori o obiettivi fotografici, ma conquistando per profondità, umanità e talento tutti coloro che avevano la fortuna d’incontrarli nella strada o sulla pagina. «Entro un silenzio così conosciuto», allora, come scriveva Orelli, «i morti son più vivi dei vivi: / da linde camere odorose di canfora / scendono per le botole in stufe / rivestite di legno, aggiustano i loro ritratti», stampati su libri che continueranno a cantare con la loro voce. Giovanna Ioli
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