Abbado, una vita per la musica

Fu nella metropolitana di Londra, un tardo pomeriggio di primavera. Capitammo nella stessa vettura, discretamente affollata, per una decina di fermate. Lo riconobbi dal profilo e dai capelli morbidi e setosi che gli assicuravano un’allure da “sempre giovane”. Recava sottobraccio una partitura, era Mahler, mi accorsi che era solo, mi dissi che quella era un’occasione da non perdere e mi avvicinai. Sorridendo, mi riconobbe; ero uno dei tanti che, durante i suoi memorabili anni scaligeri, facevano una capatina in camerino al termine dell’opera o del concerto, per salutarlo e dirgli: «Grazie maestro».

Dopo un esordio sull’andante timido, conoscendo la sua riservatezza, quasi mi sorpresi che la conversazione avesse preso una piega così schietta e cordiale. Erano gli anni della London Simphony Orchestra, di cui Claudio Abbado, scomparso lo scorso 20 gennaio a 80 anni, è stato direttore musicale dal 1979 al 1987, una stagione aurea che, anche grazie alla sua presenza, discreta ma incisiva, ha reso Londra capitale europea della musica. In quell’occasione mi colpirono il senso dell’understatement e l’umiltà con cui anteponeva costantemente le ragioni della musica al senso dell’io che, nella genia dei direttori d’orchestra, assume spesso un rilievo tronfio e ingombrante. Ciò che invece più gli stava a cuore era diffondere la conoscenza della musica fra i giovani. Abbado cercava gli strumenti per farlo, coltivava una progettualità ambiziosa che lo portava spesso e volentieri a mettersi in discussione e ad abbandonare i terreni troppo arati per ricercare campi incolti, nuovi ambiti di lavoro.

Da quel rovello interiore sarebbe scaturita nel 1986 la Gustav Mahler Jugendorchester, una formazione di ragazzi entusiasti di far musica con lui, felice espressione di quegli anni viennesi trascorsi alla direzione artistica della Staatsoper. Nel suo percorso, un cammino inesausto di ricerca e di scoperta di valori, Abbado non si sentiva mai “arrivato” come avrebbe potuto fare quando, nel 1989, primo direttore non austro-tedesco, succedette a Karajan alla guida dei Berliner Philharmoniker, l’orchestra più prestigiosa del mondo. Il suo predecessore, nell’accettare la designazione, aveva chiesto e ottenuto un incarico vitalizio. Per Abbado, invece, anche quello sarebbe stato, come gli altri, solo un tratto di cammino, una nuova tappa, nel segno di una costante autocritica, per i sentieri della conoscenza.

Veniva da una famiglia di musicisti della buona borghesia di Milano, dove era nato il 26 giugno 1933, il padre Michelangelo cattedra di violino al Conservatorio Verdi, la mamma Maria Carmela Savagnone pianista e scrittrice di libri per bambini. Il conservatorio è per lui uno sbocco naturale, a ventidue anni si è già accaparrato i diplomi in pianoforte, dove si specializza con Friedrich Gulda, composizione e direttore d’orchestra. Dalla bacchetta di Antonino Votto apprende i primi segreti del dirigere, ma i più esaltanti sono gli anni bohèmien di Vienna, dove il ragazzo riesce a farsi ammettere nelle file del celebre coro della Gesellschaft der Musikfreunde, così da poter assistere alle prove dei più illustri direttori Bruno Walter, Szell, von Karajan.

E’ il 24 novembre 1960 quando si aprono per lui le porte della Piccola Scala, un concerto monografico per i trecento anni dalla nascita di Alessandro Scarlatti. L’esordio operistico nel teatro milanese è del marzo 1966, i «Capuleti e Montecchi» di Bellini, protagonisti Giacomo Aragall, Renata Scotto e un Pavarotti poco più che esordiente nel ruolo di Tebaldo; l’anno successivo, il 7 dicembre 1967 la sua Milano lo vede sul podio per la sua prima inaugurazione con «Lucia di Lammermoor», cui ne seguiranno molte altre. Con il «Don Carlo» dell’anno seguente, un Sant’Ambrogio nelle mire della contestazione sessantottina, e con l’orchestra affidata stabilmente alle sue cure, si consolida il trinomio Verdi-Abbado-Scala, destinato a lasciare il segno.

Tra i suoi Verdi che maggiormente hanno inciso la mia coscienza musicale c’è quel «Simon Boccanegra» del 7 dicembre 1971, poi riproposto in vari anni successivi: Abbado e Strehler firmano uno spettacolo che si inscrive a lettere d’oro nella storia della Scala e dell’interpretazione verdiana. Poi vengono l’«Aida» minimalista del centenario, il «Macbeth», ancora strehleriano, il suo Rossini comico con la triade «Barbiere», «Italiana» e «Cenerentola» affidata ad un altro mago della regia come Jean Pierre Ponnelle; né si potrebbe tacere dell’apertura verso la musica del Novecento, il «Wozzeck» di Berg, la prima assoluta al Lirico de «Al gran sole carico d’amore» dell’amico Luigi Nono. Poi c’era l’amicizia con Maurizio Pollini, insieme hanno portato la musica fuori dalle sale musicali, nelle scuole, all’università, nelle fabbriche.

Nella ex sala presse del Lingotto di Torino Abbado viene con i Wiener Philharmoniker, caldeggia la costruzione dell’ampio Auditorium di Renzo Piano, luogo che gli è caro e dove ritorna più volte alla guida dei Berliner. Quando il male che lo ha colpito comincia a lasciare su di lui i primi segni del dolore, apre sempre di più il suo cuore ai giovani e si getta con forza nell’avventura venezuelana di José Antonio Abreu, l’Orchestra Bolivar, ragazzi poverissimi cui viene assicurato un futuro. Questo è il suo regalo più grande insieme all’indennità di senatore a vita destinata alla Scuola musicale di Fiesole.

Come avviene per tutti gli artisti che hanno segnato un’epoca, anche nel percorso di Abbado si riconoscono vari periodi, i capitoli di Londra, Vienna, Berlino, Lucerna, dove il 26 agosto 2013 ha tenuto il suo ultimo concerto, poi Ferrara e Bologna, ciascuno dei quali connotato da pulsioni di crescita e da una profonda originalità interpretativa. Ora che la sua parabola di musicista lucidissimo, fedele e rigoroso è già storicizzata, possiamo dire che gli anni scaligeri si stagliano alti e inviolati, rappresentano il lungo periodo che meglio di ogni altro ha nutrito pienamente di sé la storia della musica. Nel maggio 1986, con l’ultima recita del «Pelléas et Mélisande» di Debussy, a ridosso del parapetto dell’orchestra salutavo con tristezza il maestro che lasciava la Scala. Ora penso che in realtà Claudio Abbado non abbia mai cessato di abitarla.

Giorgio Gervasoni

 



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