Alla marijuana, No

Dopo che con il primo gennaio del 2014 nello Stato americano del Colorado è stata ammessa per legge la possibilità di acquistare liberamente in negozi specializzati erba cannabis, in pratica la marijuana (droga presunta “leggera” e comunque utilizzata per produrre farmaci da ottenere grazie ricetta medica), anche in Italia si è tornati a parlare di “liberalizzazione” di questa materia, dimenticando che, comunque, è uno stupefacente.

Gli esempi sono già abbastanza numerosi, in Regioni come la Toscana, il Veneto e la Liguria, dove si propone di sfruttare le terre incolte seminandovi la cannabis; e a Torino, in Consiglio comunale, dove lunedì 13 gennaio è stato approvato di stretta misura un doppio ordine del giorno (da sottoporre alla Regione e al Parlamento perché lo trasformino in leggi di loro specifica competenza) che chiede la sua legalizzazione sia a fini terapeutici sia “ricreativi”, cioè che si possa produrla e venderla direttamente. Per la precisione, si vuole che si passi «da un impianto di tipo proibizionistico a un impianto di tipo legale della produzione e della distribuzione delle droghe cosiddette leggere, con particolare riferimento alla cannabis e ai suoi derivati».

I due ordini del giorno, proposti dai consiglieri comunali Grimaldi (del Sel) e Viale (radicale) hanno ottenuto quindici voti a favore (del Sel, di metà del Pd, Idv e M5S), tredici contrari e sei astenuti, fra i quali il sindaco Fassino. Nel Pd l’unica consigliera che ha detto «no» è Domenica Genisio, anima cattolica del Partito democratico, ex “popolare”, una vita a fianco del volontariato, la quale ha detto in un’intervista a «La Stampa»: «Non trovo accettabile un modello educativo che distingue le droghe leggere da quelle pesanti, decidendo di vendere le prime. Vorrebbe dire non considerarle droghe. Invece lo sono. La cannabis potrà fare meno male del fumo e dell’alcol, ma crea una dipendenza da cui non ti togli. Io li ho visti, i ragazzi delle comunità. Ci ho lavorato e non ne ho mai trovato uno contento. Vogliono far gestire la droga dallo Stato? Facciano, ma poi nessuno venga a piangere se i ragazzi si drogano. Pensare di combattere i narcotrafficanti legalizzando la cannabis mi sembra riduttivo».

Il lato sconcertante della discussione è che si dimenticano le cifre, e soprattutto le loro relazioni rispetto alla consapevolezza che l’uso della marijuana, considerata droga “leggera”, fa male alla salute. Il capo dipartimento per le politiche antidroga della presidenza del Consiglio, Giovanni Serpelloni, ha fatto notare su «Avvenire» che una ricerca su un milione di studenti negli Stati Uniti, durata trent’anni, ha dimostrato come «quando la percezione del rischio verso la cannabis era alta (90 per cento) l’uso della droga nei teenagers era del 17 per cento, mentre quando la disapprovazione scendeva al 47 per cento l’uso saliva al 49 per cento».

Sempre Giovanni Serpelloni (il cui intervento sul quotidiano della Cei risale al 9 gennaio scorso) sintetizza il suo giudizio con queste parole: «Gli studi più accreditati dimostrano che la cannabis è una sostanza psicoattiva neurotossica e pericolosa per la salute mentale e fisica propria e altrui. I danni maggiori sono quelli derivanti dall’uso precoce (adolescenziale) di questa sostanza nel momento in cui il cervello si trova nella delicata fase dello sviluppo cerebrale, che termina dopo i 21 anni. Uno studio ha dimostrato che chi fa uso di cannabis prima dei 18 anni può avere una perdita di quoziente intellettivo con un declino neuropsicologico».

Altre cifre, dalla medesima fonte ufficiale italiana: «Il 16 per cento dei ricoveri per intossicazioni acute da droghe nella popolazione generale é dovuto alla cannabis, un dato che sale al 44,2 per cento se esaminato nella fascia dei minorenni. In Europa (fonte Emcdda) tale percentuale nella popolazione generale è del 22 per cento».

Su «La Stampa» del 9 gennaio il criminologo Federico Varese ha documentato come secondo «uno studio delle Nazioni Unite l’Italia è al secondo posto nella lista di Paesi con il più elevato consumo di cannabis al mondo. Da un sondaggio del 2012 risulta che più del 20 per cento della popolazione ha fatto uso di questa sostanza e questo dato raggiunge il 27 per cento fra i giovani i 17 e i 18 anni».

Ora tutti questi dati potrebbero anche importare poco ai proponenti di misure di legalizzazione del possesso e dell’uso personale della marijuana se tutti fossimo convinti che si tratti di una droga “leggera” e non abbia conseguenze sullo stato di salute di chi la usa. Per esempio l’onorevole di Forza Italia Giancarlo Galan, già ministro, consiglia di mettere fine alle ipocrisie (così le chiama in un’intervista) autorizzate da leggi come la Giovanardi-Fini che sono fallite perché non hanno funzionato nel proibire lo spaccio e l’uso delle droghe leggere, che non sono affatto diminuiti. Perché, secondo lui, «i divieti non limitano, spesso incentivano. Sono diventato un fumatore perché da ragazzino mi è stato vietato di fumare».

Siamo di fronte a un equivoco, di cui pochi si rendono conto. Chi, come la Genisio, ha lavorato nei centri di recupero dei drogati, non ha il minimo dubbio. Lo scrittore Ferdinando Camon ha illustrato, in un perfetto commento su «La Stampa» del 9 gennaio, il passaggio psicologico dal «benessere» o meglio ancora dall’«euforia» provocata del primo assaggio di marijuana (definita droga ”leggera”) al disastro dell’assuefazione, della dipendenza e del successivo, fatale richiamo insopprimibile delle droghe “pesanti”. I risultati si vedono: «Nelle scuole, i ragazzi che si spinellano aumentano le assenze e peggiorano i voti. Sono i peggiori della classe. Certo, il proibizionismo ha fallito. Ma la libera circolazione delle droghe leggere è una resa dopo la sconfitta». In conclusione, osserva Camon, «se vuoi tenere un ragazzo lontano dall’eroina o dalla cocaina devi tenerlo lontano dalla marijuana».

E’ pienamente d’accordo il magistrato Giuseppe Anzani, che su «Avvenire» del 10 gennaio scrive fra l’altro: «Non dico che a prevenire i disastri si debba confidare nei castighi (anche qui, però, senza mentire: da noi nessuno va in galera per consumo personale di droga). Non sono i castighi la risorsa: al contrario, la persuasione ha bisogno di voci amiche, di intelligenza, di empatia; e però anche di chiarezza, di fermezza, di responsabilità. (…) Chi pensa di risolvere il dramma delle droghe arrendendosi al fatto compiuto, dicendo che se si cambia la legge non c’è più la trasgressione, cancella il male dal vocabolario, ma non dalla vita. La droga resta male e resta nella vita».

Il fatto è che da tutto questo emerge una amara conclusione. In Italia si continua a fare ampio uso della droga, a morire per droga, a compiere delitti per droga. Le cifre di queste morti sono pressoché clandestine, anche se ufficiosamente alte, perché sembra che si sia deciso che questo drammatico fenomeno non interessi più, addirittura non esista più. Le nuove generazioni che continuano a essere coinvolte in questa tragica realtà nella quale trovano una risposta alla loro mancanza di futuro e all’attuale smarrimento etico, non appartengono né a un conto economico né a un conto umano e sociale nella gestione di una politica alla quale sembra, tutto sommato, far comodo che scompaiano in questo baratro.

Il silenzio che è sceso su questo problema, che reca tanto dolore a molte famiglie e distrugge molti individui, può essere considerato un complice, sia pure inconsapevole, della crescente influenza delle mafie e della malavita organizzata nel Nord del Paese, cioè nelle sue zone a più ampio benessere socio-economico. Una cartina di tornasole che ci fa capire come le compromissioni e le indifferenze etiche, anche nelle istituzioni, anche in partiti importanti, siano il più grave pericolo che incombe sulla nostra società e sul suo futuro.

Beppe Del Colle



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