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Il Vangelo e la pace coi poveriL’arte oratoria ha uno degli espedienti nella martellante ripetizione di una stessa espressione, come il caso famoso del ripetuto «…liberaci!» usato dal beato Giovanni Paolo II nella conclusione dell’Atto di affidamento e consacrazione del mondo alla Vergine Maria a Fatima del 13 maggio 1982. Papa Francesco usa analogo espediente oratorio nella parte introduttiva del suo documento più recente, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, data a Roma alla chiusura dell’Anno della Fede, il 24 novembre 2013, ripetendo più volte la locuzione «non lasciamoci rubare…». «Non lasciamoci rubare il Vangelo!». «Non lasciamoci rubare la speranza!». «Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!». «Non lasciamoci rubare la comunità!». «Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!». «Non lasciamoci rubare la forza missionaria!». Lo usa, a mo’ di mea culpa della Chiesa riguardo alle tentazioni degli operatori pastorali e di tutto il Popolo di Dio, nel documento che affronta la questione della trasformazione missionaria della Chiesa; della nuova «evangelizzazione, compito della Chiesa [intesa non come] un’istituzione organica e gerarchica, [ma come] un popolo in cammino verso Dio (§ 111); una Chiesa “in uscita” […] con le porte aperte: […] la Chiesa non è una dogana; è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa. […] Inoltre, è necessario che riconosciamo che, se parte della nostra gente battezzata non sperimenta la propria appartenenza alla Chiesa, ciò si deve anche […] a un atteggiamento burocratico per rispondere a problemi, semplici o complessi, della vita dei nostri popoli. In molte parti c’è predominio dell’aspetto amministrativo su quello pastorale, come pure una sacramentalizzazione senza altre forme di evangelizzazione» (§ 46, 47, 63). A parte gli aspetti tecnici e spirituali dell’annuncio del Vangelo («Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» § 33), l’esortazione apostolica dedica ampio spazio alla dimensione sociale dell’evangelizzazione, in quanto – come già scritto nel «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» (§ 52) – «Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali fra gli uomini». Papa Francesco espressamente scrive che quest’esortazione apostolica non è un documento sociale ma, fin dalle prime righe, afferma con vigore che «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo» (§ 48):… se questa non è questione di rilevanza sociale? Fin dalle prime righe vengono enunciate le sfide del mondo attuale e le risposte che la Chiesa a queste dà: «No a un’economia dell’esclusione sociale»; «no alla nuova idolatria del denaro»; «no a un denaro che governa, invece di servire»; «no all’iniquità che genera violenza»; «no alle ghettizzazioni che si formano nelle aree urbane», ove le case e i quartieri si costruiscono più per isolare che per collegare e integrare; ove, accanto ai cittadini che ottengono mezzi adeguati per lo sviluppo della propria vita personale e famigliare, vi sono moltissimi “non cittadini”, “cittadini a metà’’ o gli “avanzi urbani”» (§ 52-75). Prima di scendere nei particolari, papa Francesco ribadisce, in piena sintonia con il «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa», ciò che diversi suoi predecessori sulla Cattedra di San Pietro non hanno detto così chiaramente: «I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime al cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siamo chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose […] perché tutti possano goderne. […] Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. […] Sebbene il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica, la Chiesa non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia» (§ 182-183). Due sono i punti sviluppati con maggiore ampiezza: «l’inclusione sociale dei poveri» e «il dialogo sociale come contributo per la pace sociale e il bene comune». L’inclusione sociale dei poveri porta inevitabilmente alla considerazione del principio di solidarietà, che – lo voglio ancora una volta ricordare sulle colonne di questo settimanale – non è solamente «elemosina», bensì anche e soprattutto «beneficenza» (richiamando qui la distinzione già presente nella «Charta Caritatis» dell’Ordine cistercense, dell’inizio del XII secolo), che si realizza valutando con intelligenza il bisogno di chi chiede aiuto (comprendendo anche le ragioni per le quali il povero è tale), elargendo l’aiuto con giustizia (cioè in modo collegato all’intensità e gravità del bisogno), in modo tale da non incentivare la pigrizia in chi riceve l’atto di solidarietà, che impedirebbe l’uscita dalla situazione di bisogno. In verità, i documenti che hanno creato il corpus della Dottrina sociale della Chiesa non hanno mai affrontato in modo chiaro la differenza tra i due tipi di solidarietà; anzi, hanno quasi sempre parlato solamente di solidarietà passiva e l’apertura verso la solidarietà attiva c’è stata solamente, e in misura limitata, quasi di sfuggita, nel «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa» e, qua e là, nell’enciclica di papa Paolo VI, Populorum progressio, e in quella di papa Benedetto XVI, Caritas in veritate. Lo stesso Papa Francesco riconosce, in un solo passaggio dell’esortazione Evangelii gaudium, che «abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà che deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere artefici del loro destino, così come ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi» (§ 190). Ad ogni modo, per la Chiesa, scrive papa Francesco, l’opzione per i poveri, prima che culturale, sociologica, politica, filosofica, è una categoria teologica. «L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria; […] nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale» (§ 200-201). Ne consegue che «la necessità di risolvere le cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della iniquità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’iniquità è la radice dei mali sociali» (§ 202). Seconda dimensione sociale dell’evangelizzazione è la pace sociale, che «non può essere intesa come irenismo o come una mera assenza di violenza ottenuta mediante l’imposizione di una parte sopra le altre. Sarebbe parimenti una falsa pace quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre gli altri sopravvivono come possono. Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica» (§ 218). Anche nel messaggio Urbi et orbi del Natale scorso, papa Francesco (richiamando quanto già scritto da papa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio) ha sottolineato come la vera pace non è «un equilibrio fra forze contrarie; non è una bella “facciata”, dietro alla quale ci sono contrasti e divisioni». «Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini. In definitiva, una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza» (Evangelii gaudium, § 219). Infine, il dialogo sociale come contributo per la pace. «L’evangelizzazione implica anche un cammino di dialogo. […] La Chiesa proclama il “Vangelo della pace” (Lettera agli Efesini, 2, 14) ed è aperta alla collaborazione con tutte le autorità nazionali e internazionali per prendersi cura di questo bene universale tanto grande» (§ 238, 239). Il dialogo fra la fede, la ragione e le scienze; il dialogo ecumenico e interreligioso; il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa perché, «quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore» (§ 272). Come si può facilmente intendere, siamo nel pieno dello sviluppo dell’analisi propria della Dottrina sociale della Chiesa, «parte integrante della concezione cristiana della vita» (beato Giovanni XXIII, Mater et magistra, § 206); il cui insegnamento e la cui diffusione «fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa» (beato Giovanni Paolo II, Sollecitudo rei socialis, § 41); senza la quale, si può dire, avremmo meno Chiesa. Daniele Ciravegna
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