Porto sul palcoscenico le fragilità dell'uomo

«Sono nato attore sul palcoscenico. Prima che arrivassero le prime proposte per il cinema e per la televisione ho fatto sette anni di teatro, poi è venuta “La meglio gioventù” e tutto il resto. Qualcuno è portato a pensare che un attore oggi possa scegliere di fare teatro perché sente di provare forti emozioni e di ricevere applausi dal vivo ogni sera, cosa necessaria al narcisismo della nostra professione…

Ebbene, vi posso garantire che non è sempre e solo questo il motivo. Se vivi la professione di attore con passione avverti che non puoi tagliare questo cordone ombelicale col teatro, hai necessità di quella linfa vitale che il teatro sa darti e ti permette di capire attraverso gli spettatori, con le loro reazioni, il periodo storico che la nazione sta vivendo e nel quale bisogna vivere pienamente».

Classe 1966, bergamasco, presenza costante nel cinema italiano degli ultimi anni (oltre a «La meglio gioventù», anche «Quando sei nato non puoi più nasconderti», sempre di Marco Tullio Giordana, «La bestia nel cuore» di Cristina Comencini, «Arrivederci amore ciao» di Michele Soavi» e «Viaggio segreto» di Roberto Andò) e volto noto del piccolo schermo (da «Caravaggio» a «Puccini» e «Walter Chiari»), Alessio Boni è protagonista a teatro, insieme ad Alessandro Haber, della commedia «Il Visitatore» (di cui parliamo a lato).

Perché il teatro è fondamentale per un attore?

Recitare in teatro ti porta ogni giorno a scandagliare l’arco drammatico della vicenda da rappresentare, dall’inizio alla fine. Non è come al cinema, dove tu lavori per scene e puoi anche iniziare dall’ultima. Il cinema è soprattutto del regista, che, una volta girate le singole sequenze, esegue il montaggio. Nel teatro, invece, una volta impostato il lavoro con il regista, il tutto resta nelle mani dell’attore, che ogni volta reinterpreta quel testo trovando nuove sfumature e accenti nuovi.

Quando le è stata presentata la proposta di interpretare Dio in questo lavoro del francese Eric-Emmanuel Schmitt, «Il Visitatore», quale è stato il suo primo pensiero?

Quando mi viene proposto di interpretare un personaggio di una commedia, non mi fermo al personaggio; guardo prima di tutto la sceneggiatura nel suo insieme e soprattutto i dialoghi. E se mi convincono, accetto. Solo in un secondo momento mi fermo al personaggio. Questa volta non mi sono spaventato, perché l’autore saggiamente ha disegnato un personaggio molto umano, non distante da noi, anche se si può immaginare che esso possa essere una proiezione inconscia di Freud che prende corpo in quel momento. Si presenta in maniera molto umile, terra terra, un clochard, quasi un bambino che non articola ancora bene, ma dotato di una vivida intelligenza e un pensiero forte che vien fuori con dialoghi serrati. Devo dire che sono stato preso da questi dialoghi, una sorta di lotta senza peli sulla lingua vissuta con estrema libertà e sincerità. Qualcosa di molto interessante, perché ci permette di scandagliare l’intimo dell’uomo, i suoi dubbi, la sua ricerca di verità e questo è qualcosa che accomuna tutti, credenti o non credenti. Colpisce il fatto che Dio non voglia convertire Freud ad una fede religiosa. Lui rimane ateo, ma la categoria del mistero è entrata nella sua mente e il dubbio s’insinua in lui.

Nell’ambito della psicoterapia, Freud negli ultimi decenni sembra essere stato messo un po’ nell’angolo. In qualche modo questa commedia ce lo fa riscoprire nel suo dramma di uomo e quindi ce lo fa sentire più vicino a noi…

E questo è l’aspetto più bello della commedia, perché ti fa entrare nella fragilità di un uomo; non lo metti più su un piedistallo solo perché è il padre della psicoanalisi. Qui troviamo un Freud in crisi, nella sua fragilità, malato, che vive drammaticamente le vicende politiche del suo tempo, che morirà dopo pochi mesi e che, per questa sua condizione, si avvicina al mistero, alla spiritualità, anche se fino a qualche istante prima lo negava con tutte le sue forze, magari per orgoglio. Ora invece, in questa intimità della sua casa, in questa condizione di estrema precarietà, ecco che gli appare un Dio che magari prima non gli sarebbe mai apparso. Un aspetto, questo, molto interessante, perché ci riporta alla nostra vita, alle nostre fragilità, alle nostre paure e perplessità e le vediamo proiettate in quel personaggio che è più grande di noi. Mi sembra questa l’idea su cui Schmitt ha costruito la sua opera teatrale, che riesce a portare lo spettatore dentro il dramma di Freud e lo coinvolge intimamente.

Può aver influito in questo anche la presenza storica di Papa Francesco, che ha aperto un ponte tra credenti e non credenti come mai era successo prima?

Può darsi, ma non l’avevamo preventivato. Quando abbiamo cominciato a lavorare a questo spettacolo Papa Francesco non era ancora stato eletto. Poi è nato questo dialogo tra Francesco e Scalfari, tra persone di convinzioni religiose e non. E noi eravamo sorpresi da questa coincidenza. Quello che avveniva fuori, nella storia dell’umanità, in questo rapporto nuovo tra credenti e atei noi lo stavamo portando a teatro ogni sera.

Pensa che il dialogo tra chi ha una fede religiosa e chi si professa ateo possa oggi avere un futuro, dopo anni di contrasti e di lotte e di tragici eventi storici di cui la Chiesa cattolica ha chiesto perdono all’umanità?

Credo proprio di sì. Ritengo che questo dialogo sia un aspetto fondamentale da cui non si potrà prescindere nello sviluppo futuro dell’umanità. Si ritorna a parlare insieme dell’uomo, dei suoi pregi ma anche dei suoi limiti, delle sue fragilità. Anche Gesù, in quanto uomo, ha sperimentato la fragilità, ha pianto, ha provato sentimenti contrastanti, ha avuto paura, ha sentito l’abbandono da parte di Dio. E soprattutto perché oggi si riscopre il senso più profondo di una fede religiosa che è quello di mettere insieme, unire, accogliere gli altri. Se siamo attenti alla realtà sociale di oggi, vediamo che l’uomo più di ogni altro momento storico ha voglia di essere accolto, ascoltato, di vivere in comunità. C’è gente che paga 140 euro all’ora da uno psicanalista per essere ascoltato, proprio perché nella società non si sente accolto e valorizzato. Per me è importante costruire comunità con chi è diverso da me per fede o convinzioni. Nel rispetto delle proprie scelte dobbiamo saperci rapportare fraternamente, ascoltandoci, aiutandoci.

Pasquale Lubrano

 



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