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Don Tonino Bello continua a vivereSono passati vent'anni dalla scomparsa di don Tonino Bello, ma il suo ricordo è sempre più vivo in noi. Tra chi ha avuto il piacere di conoscerlo da vicino e condividere con lui esperienze di vita c'è Mimmo Cives, il medico che lo aveva curato negli ultimi anni e che era diventato intimo amico di famiglia. L'abbiamo incontrato e intervistato in occasione di una conferenza a Piossasco, in Piemonte, sulla cooperazione internazionale. In questa occasione ci ha raccontato il suo rapporto con il vescovo di Mofetta e il percorso nel quale, dopo un passato ateo e razionale, si è scoperto credente. Su questa intensa esperienza Cives ha scritto un libro, «Un vescovo per amico», pubblicato nel 1995 (Edizioni San Paolo) e uscito di recente in abbinamento con «Famiglia Cristiana». Un racconto autentico su «un uomo che ha lottato con il coraggio dell'incoscienza, che ha inevitabilmente perso la battaglia con la morte, ma ha ottenuto tante vittorie grazie al calore della solidarietà». Il nostro colloquio si è aperto con un ricordo. Nel retro di un portafoto è stato conservato per anni un biglietto d'auguri che accompagnava una Bibbia, regalo che don Tonino aveva fatto alla figlia maggiore di Domenico Cives. «Quel giorno avevano entrambi la febbre, ma quando don Tonino seppe che era il compleanno di Mirella disse soltanto: “Andiamo!”. E così abbiamo fatto». Ricorda il vostro primo incontro? Sabato 12 gennaio 1991 mi arrivò un foglio da parte del parroco della parrocchia di San Bernardino. Era un invito a un incontro che don Tonino avrebbe tenuto presso la biblioteca comunale con i professionisti del quartiere. Avevo forti pregiudizi su di lui, un pastore che invece di farsi gli affari della Chiesa si faceva gli affari del mondo. Entrava nelle case e camminava nelle strade e per questo motivo era mal digerito dalla classe politica dell'epoca. All'assemblea parlai del ruolo dell'intellettuale nella società tenendo mia figlia maggiore di sei anni per mano. Alla fine dell'incontro don Tonino mi disse: «Mi è piaciuta molto l'icona di te e tua figlia per mano». Inizialmente non capii, poi compresi che con il termine «icona» non intendeva qualcosa di statico, ma voleva congratularsi per una famiglia nella quale veniva condiviso il piacere per la comprensione dei fatti del mondo. Gli dissi: «Vescovo, insegnami a pregare». E così fece... Che tipo di uomo e di prete era? Era un uomo che praticava la povertà nella vita quotidiana, sempre pronto a parlare da amico a chi ne aveva bisogno. Era vicino alla realtà in cui viveva e sosteneva che soltanto attraverso la sofferenza viene fuori la verità dell'uomo. Lavorava per il bene dell'umanità intervenendo a soccorso dei meno fortunati e il Vangelo era il suo baluardo di speranza. Ogni sua parola era incarnata da un sentimento di pace. Nel vostro rapporto tra medico e vescovo dal libro si deduce che il filo conduttore è sempre stata la relazione tra l'uomo e le sue necessità… Don Tonino diceva che eravamo come «due rette parallele che si incontrano all'infinito», perché il medico vive secondo il principio dell'elemento fisiologico, mentre il vescovo predica l'infinito. La nostra era una doppia malattia: lui era malato di cancro, io ero malato di ragione, ma don Tonino aveva dei progetti per me. Se non fosse stato per la malattia, la sua sarebbe stata una storia diversa, molto più incisiva per la società. Da solo io non ho potuto, perché quando viene a mancare una guida così importante si perde la forza di perseguire i propri sogni. Tutt'ora quei sogni non si sono avverati e la mia sensazione è che, poco alla volta, si perda un po' la capacità di immaginare. La più cocente delusione per ogni uomo penso sia proprio l'inganno. Le persone oggi hanno tutto, ma sono depauperate con estrema violenza della loro coscienza. Per questo motivo è necessario spostare sempre l'asticella un po' in avanti e impegnarci per portare tra la gente un principio di solidarietà e pace nel mondo. Se non fosse stato per la sua malattia il vostro rapporto sarebbe stato diverso? No, ma il mio cruccio più grande è quello di non aver condiviso con lui l'esperienza di Dio in corpo. Con don Tonino ho imparato che Dio non è un numero e che non bisogna accontentarsi, ma andare al cuore dei problemi. Don Tonino era un uomo straordinario. Ti sentivi piccolo se volevi contrastarlo, grande se volevi imparare. Possedeva un'intelligenza e una delicatezza fuori dal comune e sosteneva che per trasmettere valori non si deve essere maestri, cioè coloro che stanno al di sopra, ma ministri, dunque coloro che stanno tra la gente. Non si relazionava mai con superbia ed era mosso da una profonda curiosità riguardo gli aspetti medici. Desiderava comprendere e capire per conoscere e rivelare. Assorbiva come una spugna, ma mi invidiava la capacità divulgativa. Un giorno mi disse che avevo il dono della volgarità, poi cercò di rabbonirmi dicendo che avevo la capacità di esprimere verità astratte attraverso concetti semplici. E questo a lui mancava. Don Tonino ha sempre privilegiato i poveri e forse per questo motivo si è spesso cercato di etichettarlo politicamente. Lei cosa ne pensa? Don Tonino non era un uomo di destra o di sinistra, era un uomo di Chiesa e apparteneva a tutti. La sua forza più grande era quella di far arrivare l'insegnamento ai più poveri e ai più ricchi indistintamente. In questo la fiducia gioca un ruolo da protagonista, perché così come un malato si mette nelle mani di un medico e si affida a lui, allo stesso modo fa un fedele, indipendentemente dalla sua fede politica. Il 20 aprile 1993, quando don Tonino morì, lei scelse di tenere il libro delle Confessioni di sant'Agostino di cui avevate a lungo parlato. Che cosa rappresenta per lei questo libro? C'erano quattro pagine sottolineate in tutto il libro ed erano quelle che parlano del rapporto di sant'Agostino con la madre. L'ho trovato un momento molto intimo. In «Un vescovo per amico» lei scrive: «Forse il suo compito era quello di offrirmi la nota di un canto che avrei dovuto continuare a intonare da solo». A distanza di anni, era proprio questo il suo compito? Sì, anche se riuscire a “cantare” non è sempre possibile, ma non bisogna considerare le cose del mondo in termini di vittoria o sconfitta. Semmai quello che conta è ciò che c'è nel mezzo; contano il percorso e la speranza nell'avvenire. Questo, forse, è l'insegnamento più grande di don Tonino, la cui nota risuona ora nel cielo come un diapason per chi rimane e si impegna a mandare avanti la sua grande sfida: portare umanità tra gli uomini impegnando la propria vita per i più deboli. Dedicando tutta la passione possibile al popolo di Dio. Eugenio Giannetta
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