Un dono di fratel Arturo

Esce alla vigilia di un compleanno “incredibile”, 101 anni, non solo per l’enormità anagrafica ma soprattutto per le straordinarie condizioni fisiche e psichiche di fratel Arturo Paoli. Si direbbe, a guardarlo, che faticare e soffrire nella vita porti frutti di gioia, si direbbe che le beatitudini evangeliche possano corrispondere a storie di vita vissute.

Ogni volta che lo si incontra, si avverte che è un grande dono che la sua esistenza continui, a fronte del quale è nient’altro che un piccolo dono di riconoscenza il libro «Cent’anni di fraternità», che l’editore Chiarelettere ha mandato nelle librerie il 28 novembre scorso, antevigilia del 101° anno di Arturo Paoli. Lui lo sfoglia, lo legge quasi con sorpresa, lo dona agli amici che gli fanno visita, lo tiene sul tavolo, sempre. È orgoglioso della post-fazione di Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace nel 1980, argentino come papa Bergoglio, due uomini di cui Paoli racconta nelle pagine del suo libro l’amicizia, le affinità, le speranze loro affidate dai vinti della terra.

Ma soprattutto Paoli si sofferma sul capitolo dedicato al «mio amico Domingo», da lui scritte con ispirazione poetica nel 1978, una decina di anni dopo averle vissute. Domingo è un hacheros, ovvero un boscaiolo, che vive in un rancho di fango con la moglie e due figlioli, ai margini di una foresta del nord-est argentino. Scrive Paoli: «Domingo, normalmente poco espansivo, mi vede passare davanti alla sua casa, mi saluta e m’invita a sedergli accanto. […] Manda una voce dentro al rancho: “Negra, il fratello resta a cena con noi”. La «negra» si affaccia alla porta sorridente e dice: “Domingo, abbiamo tanto poco per cena, non sarebbe meglio invitarlo un’altra volta?”. Ma Domingo insiste, e io sento che devo restare, proprio perché non hanno niente da darmi. […] Siamo noi tre nel silenzio calmo della notte. […] In quel momento Domingo aveva la sua estasi contemplativa: scopriva nel suo “nulla” uno sguardo che si posava su di lui con amore. Domingo mi regalò quella notte la perla unica di cui parla il Vangelo».

Fratel Arturo si emoziona nel rivivere quel momento, come fosse ora, come la memoria di un evento indimenticabile di cui ritrova le orme nel suo cuore di carne. E chi lo ha incontrato negli ultimi anni, come chi lo conosce da tanto tempo, scopre o ri-scopre in quelle pagine le parole che spiegano cosa ci sia di tanto speciale in lui: la leggerezza del nulla, che è gioia di vivere perché «la vita è un dono meraviglioso, e ne abbiamo una sola, per cui non dobbiamo sprecarla nel passare di giorni privi di amore», come esorta ancora oggi.

«Cent’anni di fraternità» si compone di due parti. La prima raccoglie una antologia di testi scritti da Arturo Paoli sul finire degli anni Settanta e nei primi degli Ottanta, intrisi di America Latina, ovvero di un mondo “terzo” rispetto al nostro, in cui la Chiesa aveva annunciato la profezia della teologia della liberazione ma poi l’aveva abbandonata e tradita durante le dittature militari che devastarono quel continente, in cui la società rivelava le piaghe aperte della povertà e delle ingiustizie sociali.

Non fa sconti, fratel Arturo, nel denunciare le responsabilità delle nazioni opulente che parlano di «sviluppo» del terzo mondo: «Ma che sviluppo, quando noi teniamo il piede sulla loro testa? Che sviluppo si può pensare, quando c’è una struttura di predoni che cerca di levare loro tutte le ricchezze, e che impedisce loro di usarle?». Non fa sconti neppure nei confronti degli uomini e delle donne di Chiesa quando afferma che «la relazione con i poveri è molto pericolosa quando non è un punto di partenza verso una ricerca di uguaglianza. […] Noi, persone efficaci, abbiamo bisogno di una lunga e paziente purga, di una lunga quarantena che può durare degli anni. Se andiamo a vivere tra i baraccati la domenica, e il lunedì apriamo un dispensario o organizziamo un incontro di madri o una riunione di giovani, perdiamo forse per sempre l’occasione della povertà. […] La scelta della povertà e dei poveri può condurci a molto soffrire e anche a morire, ma non può essere la causa della deformazione della persona, nostra o altrui. […] I poveri sono i nostri liberatori e i nostri maestri».

Da questa radicalità «politica ed economica», affrontata con coraggio e con passione, scaturisce in Paoli la sorgente contemplativa, che è la gioia di vivere fondata sull’esperienza che Dio sta dalla parte dei poveri. Dio non è equidistante tra oppressi e oppressori, non è tollerante verso le ingiustizie, non è una pacca di consolazione sulle spalle piegate di coloro che, oggi come ieri, subiscono le conseguenze di una ripartizione ingiusta delle ricchezze. Dio è con tutti i Domingo, è con i contadini sem terra, è con i giovani succubi della tirannia della tecnica, è con le donne che subiscono violenza. Dio è liberatore, come dichiara l’iscrizione sopra alla statua del Cristo eretta dallo scultore Giambologna nel duomo di Lucca, la città natale di Arturo Paoli, il quale la ricorda come prima testimonianza, esperita nell’infanzia, di un Dio che beatifica gli oppressi e gli assetati di giustizia.

«Cent’anni di fraternità» è tutto questo, ma non solo. La seconda parte del libro è stata composta da fratel Arturo nei mesi del suo centesimo anno, con grafia incerta ma con mente lucida e cuore aperto a cogliere le novità che, soprattutto con la elezione di papa Francesco a capo della Chiesa, stanno nascendo nella vita della comunità umana ed ecclesiale. Sono pagine in cui Arturo Paoli consegna le sue speranze, la sua fiducia nell’uomo, la sua esperienza di Dio Padre di tenerezza, una eredità spirituale affidata a quanti abbiano occhi e orecchi per accoglierla e vogliano scommettere sulla possibilità di realizzarla. Un dono, per ora l’ultimo tra gli innumerevoli che fratel Arturo ha offerto nella sua lunga, bellissima vita agli uomini e alle donne che ha incontrato nel suo cammino, di cui non possiamo che essergli infinitamente grati.

Silvia Pettiti



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