Così Ruffini pagò la libertà e il diritto

In un tempo lontano ma ricco di idee e motivazioni morali e politiche, visse un grande maestro di diritto e di libertà come Francesco Ruffini. Nato a Lessolo Canavese il 10 aprile 1863 e morto a Torino il 29 marzo 1934 è stato, nella fase travagliata dell’Italia liberale post unitaria, un lungimirante protagonista del rapporto tra istituzioni e promotore di un percorso di modernizzazione culturale, liberale e anti nazionalista e massimalista. Alla figura e opera di Ruffini è stata dedicata una giornata di studi in occasione del 150esimo dalla nascita.

L’Accademia delle Scienze e l'Università degli Studi di Torino hanno promosso un convegno al quale hanno preso parte illustri docenti dell’Ateneo torinese e di molte accademie universitarie italiane, che di Ruffini hanno dissertato sui diversi momenti della vita e del pensiero: Margiotta Broglio, Varnier, Vidari, Bertolino, Mazzola, Ossola, Moscati, Dogliani, Mongiano, Soffitti, Genta, Casana e Rosboch, oltre naturalmente all’attuale Magnifico rettore Gian Maria Ajani.

Inoltre presso l’archivio storico dell’Ateneo e la biblioteca «Federico Patetta» del dipartimento di Giurisprudenza è stata allestita una mostra documentaria, aperta fino al 24 dicembre (dal lunedì a venerdì, dalle 9 alle 16.30), con documenti, scritti, carteggi, libri e oggetti del docente e poi rettore dell’ateneo torinese, del ministro della Pubblica istruzione nella fase finale dell’epoca giolittiana e l’antifascista liberale.

La vita di studioso di Francesco Ruffini ebbe inizio nel 1886 con la laurea in Giurisprudenza, a Torino; da quel momento l’attività accademica sarebbe diventata la parte preponderante della sua vita, il centro della sua testimonianza civile ed elaborazione culturale. Professore di Diritto ecclesiastico, a Pavia, Genova e infine a Torino, Ruffini divenne un maestro di pensiero per tutti i suoi allievi, all'Università di Torino negli anni accademici dal 1908-1909 al 1930-1931 come docente e poi rettore, prima che il rifiuto di fedeltà al regime fascista lo allontanasse dalla cattedra.

I suoi studi di storia del diritto alla libertà sono stati per decenni i lineamenti fondamentali della definizione di libertà religiosa. Nei corsi di Ruffini di diritto ecclesiastico gli approfondimenti sui diversi sistemi considerati (tolleranza e intolleranza, cesaropapismo e giurisdizionalismo, teocrazia «diretta» e «indiretta», coordinazione...), sono ancora una "raccolta" preziosa in grado di fornire una chiara esposizione di tutti gli aspetti, storici e dogmatici, della regolamentazione delle relazioni Stato-Chiesa. 

Era persuaso dell’impossibilità di una «recisa separazione della storia dal sistema», nella certezza che «storia e dogma non possano sceverarsi in un sistema giuridico perfetto». Francesco Ruffini fu raffinato pubblicista collaborando regolarmente dal 1910 al 1925 al «Corriere della Sera» al quale era legato da vincoli familiari con il direttore Luigi Albertini e fu tra i protagonisti della fase terminale dell’Italia giolittiana. Nel 1914 fu nominato senatore su proposta di Antonio Salandra e ministro della Pubblica istruzione nel governo di unità nazionale presieduto da Paolo Boselli nel 1916-1917.

«Uomo dell’antico Piemonte», come lo definì Croce, erede della Destra liberale, sostenne l’intervento italiano in guerra, da lui interpretato come occasione per completare l’edificio risorgimentale.

Nella corposa introduzione ai «Discorsi parlamentari» di Francesco Ruffini, raccolti e pubblicati dal Senato nel 1986, Francesco Margiotta Broglio (a sua volta allievo di Carlo Arturo Jemolo, il più autorevole degli epigoni di Ruffini) suggeriva di non dimenticare, oltre ai meriti scientifici dello studioso del diritto e della storia, la coscienza civile e l’effettivo contributo politico di un protagonista di «lotte e agitazioni» negli anni cruciali della crisi dello Stato liberale. Soprattutto nel momento in cui l’affermarsi della dittatura e la progressiva mortificazione delle principali garanzie di libertà individuale, sembravano allontanare l’Italia dalla sua, seppur fragile, ormai acquisita tradizione liberale, Ruffini non ebbe incertezze nel comprendere fin da subito gli scopi eversivi del fascismo e fu tra i soli ventuno senatori, che in aula il 26 giugno 1924 negarono la fiducia al governo Mussolini. 

Anche per questo la sua lezione si pose come riferimento forte di quella scuola di libertà e di coraggio politico che vide tra i suoi allievi la generazione di quell’Italia minoritaria, ma lungimirante che comprese Leone Ginzburg, Mario Falco, Palmiro Togliatti, Piero Gobetti, Antonio Gramsci. Ruffini, come ricordano i poderosi saggi di Giorgio Boatti e Helmut Goetz, fu uno dei dodici docenti universitari che opposero il gran rifiuto contro il regime fascista, frutto di un’opposizione profonda nei confronti di chi minava alle radici i principi di libertà individuali e collettive. Quando il professore di Lessolo morì nel 1934 non venne commemorato ufficialmente; e nessuna voce si levò a ricordare il forzato abbandono della cattedra nel 1931.

Il nucleo centrale culturale e politico di Ruffini conservò nel corso della sua esistenza una rara coerenza, dagli studi giuridici agli interventi che il liberale piemontese pronuncerà veementemente in Senato contro la demolizione sistematica di quei principi di libertà per la cui appassionata difesa è entrato a far parte del milieu intellettuale antifascista legato all’ambiente torinese. «Tutto l’antifascismo intellettuale torinese, di giovani e di vecchi», ricordava il suo primo allievo Arturo Carlo Temolo, «ha in questi anni relazioni con Ruffini». Il pericoloso isolamento costituzionale in cui l’Italia si stava ponendo, denunciato da maestri come Ruffini, avrebbe portato l’Italia alla deriva, mentre i nuovi stati dell’Europa procedevano a darsi costituzioni liberali e democratiche. Il processo di modernizzazione politica e culturale che avrebbero dovuto consacrare le libertà storiche intorno alle quali si era combattuto per secoli, fu vanificato dal Ventennio fascista e lo Statuto di Carlo Alberto subì un processo di corruzione graduale da parte delle leggi del regime che stavano «scavando la tomba allo Stato liberale».

Nel dopoguerra, tra il 1946 e il 1947, non a caso nel ricordare le vicende l’attività politica in Senato di Ruffini, Luigi Einaudi riconosceva il merito di un’opposizione coraggiosa condotta da pochi intellettuali e infatti: «Per qualche anno risuonarono ancora alte solenni le voci di Benedetto Croce, Luigi Albertini, Francesco Ruffini e pochi altri». Mentre Pietro Calamandrei rivolse uno sguardo più attento alla dottrina di Ruffini, ripubblicando «Diritti di libertà», che diventarono un importante pilastro alla vigilia della costruzione della Carta costituzionale, «un limpido ed autorevole contributo, collaudato dall’esperienza, alla ricostruzione del nostro ordinamento costituzionale».

Luca Rolandi



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