La politica e la violenza

Non poteva esserci, nell’attuale panorama nazionale, una coincidenza di opposti più chiara, più evidente, più drammatica di quella fra la trionfale elezione di Matteo Renzi a segretario del Partito democratico con uno straordinario afflusso alle urne delle primarie (quasi tre milioni di cittadini) e la protesta dei “Forconi” in tutt’Italia, con episodi di pubblica violenza, particolarmente a Torino.

In poco più di ventiquattro ore l’atmosfera generale si è letteralmente rovesciata. La vittoria del sindaco di Firenze sui due avversari Cuperlo e Civati con il 68 per cento dei votanti nei novemila gazebo, aveva appena finito di indurre tutti i commentatori sui giornali, sulle tv, sulle radio e soprattutto “in rete” a registrare la fine di un mondo e di un’epoca, dominati nel bene e nel male dai partiti tradizionali, l’ultimo dei quali rimasto in vita fino a domenica scorsa, giorno dell’Immacolata, aveva perso anche l’estrema traccia del suo passato politico e ideologico, il comunismo, già da vent’anni in coma prolungato e “assistito” da nostalgici senza futuro.

In sostanza, quel voto e quel vincitore potevano essere accolti come l’annuncio di un’età nuova, sostenuta dalla fiducia e dalla speranza di molti cittadini che non hanno ancora rinunciato alla politica e alla democrazia come strumento di governo della pace e della civiltà sociale di un Paese in grado di uscire dalle difficoltà odierne senza sacrifici eccessivi e ingiusti e senza aderire a movimenti populisti, antieuro e demagogici.

All’improvviso, anche se annunciata da volantini diffusi nei giorni precedenti qua e là nelle strade e sui internet, è esplosa la rabbia di gruppi sociali chiamati alla protesta antigovernativa da autotrasportatori scissi dai loro stessi sindacati più forti, per le ragioni più diverse ma tutte collegate alla crisi economico-finanziaria presente da anni sia nel mercato, sia nella gestione pubblica di particolari servizi. E dunque tranvieri e agricoltori, ambulanti, piccoli commercianti e artigiani, imprenditori “minimi” e titolari di “partite Iva”, ma anche disoccupati, giovani che non trovano lavoro, precari pubblici e privati, e così via. Il tutto sotto la voce unica di “Forconi”, nati in Sicilia ma rapidamente diffusi in tutto il Sud e infine nel Nord, dal Piemonte al Veneto, alla Liguria, soprattutto Genova.

Le cronache sono state chiare. La violenza è andata oltre le intenzioni dei promotori della protesta, volta a ottenere, nel giro di pochi giorni, la caduta del governo (almeno così essi dicono). Ai cortei e ai blocchi stradali si sono aggiunti veri e propri assalti a edifici pubblici di Comuni, Regioni e Province, realizzati a colpi di pietre, mattoni e schegge di marmo da giovani, per lo più ragazzini minorenni, e insieme  a loro da tifosi ultrà (della Juve o del Toro, uniti per la prima volta) e a militanti nei gruppetti estremisti di destra, testimoniati da tricolori svettanti, grida di «Italia, Italia» e saluti romani.

Le forze dell’ordine hanno fatto quello che dovevano, senza infierire a loro volta con la violenza o l’uso di armi di là dai lacrimogeni, anche se nove poliziotti e cinque carabinieri sono risultati feriti dall’opposta violenza. Ma quello che ha colpito come novità assoluta in frangenti del genere è che parecchi poliziotti e anche qualche carabiniere si sono tolti i caschi e hanno sorriso ai manifestanti, lasciandosi anche andare a riconoscerli, parlando con i giornalisti, come comprensibili sostenitori di una dura, ma giusta polemica contro tutta la classe dirigente del Paese, centrale o locale.

Le rispettive autorità hanno tenuto a precisare che quei caschi antiguerriglia sono stati tolti perché le manifestazioni erano terminate e non c’erano più rischi, ma il dirigente di un sindacato di polizia, il Siulp, ha affermato che «togliersi il casco in segno di manifesta solidarietà e condivisione delle ragioni a base della protesta odierna …è un atto che per quanto simbolico dimostra che la misura è colma e che i palazzi, gli apparati, e la stessa politica sono lontani dai problemi reali dei cittadini e troppo indaffarati ai giochi di potere per la propria sopravvivenza e conservazione della casta».

Vedremo, alla fine, chi avrà avuto tanta forza necessaria a uscire dalla dicotomia selvaggia di questi giorni: se Matteo Renzi e il suo gruppo di amici e simpatizzanti, dentro e fuori del Partito democratico, come iniziatori di una nuova era politica e sociale, o i “Forconi” e le loro derivazioni, diramazioni, connivenze, cointeressenze, dentro e fuori degli altri partiti. La logica e il desiderio più ragionevole dovrebbe poter rispondere che alla fine vincerà la democrazia secondo i dettami della Costituzione, lontani da ogni tipo di violenza, di destra e/o di sinistra (l’Italia ha già vinto una volta il terrorismo rosso e quello nero, grazie a una cultura politica sinceramente democratica).

Ma la logica deve poter contare su una classe dirigente all’altezza dei compiti che la attendono. La realtà è questa: Renzi è alla guida di un partito che costituisce la maggioranza nel governo di un democratico, Enrico Letta; e ha già dichiarato quali sono i propositi che lo animano: una nuova legge elettorale maggioritaria e bipolare, il sostegno al lavoro, il taglio di un miliardo ai costi della politica, la fine del bicameralismo nella forma attuale, la riduzione dei parlamentari, il tutto mediante un “contratto di coalizione” con gli altri componenti della compagine governativa, il Nuovo centro-destra di Alfano e quello che resta di Scelta civica già di Monti.

In primo luogo, quanto reggerà la collaborazione con Letta, iniziata ufficialmente lunedì scorso? In secondo luogo, il Ncd non può certo dimenticare che esiste tuttora la rinnovata Forza Italia, schierata all’opposizione soprattutto in difesa di Berlusconi e dei suoi malanni giudiziari, e che elezioni anticipate potrebbero riportare al centro della contesa parlamentare. In terzo luogo il populismo “grillino” è pur sempre condizionante, anche rispetto alla rabbia dei “Forconi” e alla destra estrema che la condivide e la sostiene con la congenita squadristica violenza.

In quarto luogo, c’è pur sempre per Renzi l’ombra del passato ideologico marxista, rappresentato nelle recenti primarie da Giovanni Cuperlo e che, secondo l’editorialista Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera», potrebbe rendergli non facile la soluzione della «questione per lui cruciale dell’”oro del Pci” (il patrimonio immobiliare del vecchio partito)», investito in qualche Fondazione.

Il nuovo segretario ha già fatto i primi passi, soprattutto attraverso la costituzione della segreteria, composta da sette donne e cinque uomini, con età media 35 anni. Scegliendo anche rappresentanti dei suoi avversari nelle primarie, primo fra tutti Filippo Taddei, sostenitore di Pippo Civati, che dovrà gestire l’economia del partito ed è noto per avere espresso qualche mese fa opinioni divergenti da quelle del sindaco di Firenze «rispetto alla riforma fiscale e il mercato del lavoro».

Il primo problema che Renzi dovrà affrontare è proprio quello della nuova legge elettorale, sulla quale la differenza all’interno della fragile maggioranza fra Letta e il suo vice Alfano può far crollare il governo e con esso la legislatura. Cioè nuove elezioni (con quale legge? il porcellum ripulito dalla Corte costituzionale, come spiega qui accanto Garancini?) che non promettono oggi nulla di buono, visto che fra Pd, Forza Italia e M5S si manterrebbe il tripolarismo più devastante di tutta la storia della Repubblica, diventata ingovernabile.

Beppe Del Colle



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