Zurbaran, il maestro della Controriforma

Sono i suoi «santi» a lasciare il segno. Perché raccontano storie che sono insieme la «storia sacra» dell'iconografia ufficiale, voluta dal committente e, insieme, nello stesso quadro, l'epopea del «siglo de oro» spagnolo. Zurbarán è, con Velàzquez e Murillo, uno dei protagonisti di quella stagione unica in cui l'impero su cui non tramontava mai il sole era il più grande d'Europa, e sull'Europa faceva piovere le ricchezze del Nuovo Mondo.

Siviglia, prima ancora di Madrid, era la porta di queste ricchezze, con tutta la fecondità, anche artistica e culturale, che ne derivava. Ed è da Siviglia che Zurbarán comincia, provenendo dall'Estremadura (anche allora fra le regioni più povere della Spagna) e impegnandosi a dipingere per frati e monache che avevano nella capitale andalusa, i riferimenti obbligati delle attività religiose e missionarie (e la riscoperta critica di Zurbarán si deve anche al ritorno del tema dell'identità ispanica, riesumato nel XIX secolo quando, appunto, l'impero era finito da un pezzo). 

La mostra che Ferrara dedica a Zurbarán porta alla luce la complessità di un pittore meno noto di Velázquez, ma ugualmente significativo e «moderno». I suoi ritratti (e non solo quelli) sono infatti la fotografia di un'epoca che presenta non pochi punti di contatto con la nostra contemporanea: in termini, soprattutto, di inquietudine, percezione del vuoto e del nulla. E dove non mancano, però, i fermenti di un «senso del sacro», una religiosità profonda, che non sempre riesce a trovare la propria espressione.

Sono appunto i santi di Zurbarán a raccontare queste storie: santi improbabili o conosciuti solo nell'Andalusia remota, come la Casilda da cui è stata ricavata l'immagine civetta della mostra; o inquietanti patriarchi di Israele, come il Beniamino che obbliga a pensare, più che all'ultimo figlio di Giacobbe, al Bagatto dei Tarocchi, l'illusionista capace di mutare, con le immagini che evoca, i destini degli uomini. La scelta stilistica decisiva è rappresentata dagli abiti, delle donne soprattutto: i ritratti erano commissionati dalle signore e signorine della ricca borghesia andalusa, che non avevano altro modo di «mettersi in mostra» se non quello che passava per l'ambito religioso e devozionale. E dunque sono gli abiti, prima ancora che le facce e i corpi, a raccontare queste storie. E però la religiosità, in Zurbarán, è tutt'altro che «maniera». Altri ritratti di santi, del periodo giovanile come di quello madrileno, testimoniano la capacità, che non si può inventare, di cogliere la dimensione profonda, mistica quasi, in uno sguardo o nella luce che piove da «fuori», da un cielo sovente scuro o addirittura cancellato.

Poi c'è Francesco. Zurbarán lo dipinge più volte, e in periodi diversi, da vivo e da morto; mentre riceve le stimmate o mentre fa meditazione. Quella per il poverello di Assisi sembra quasi un'ossessione, una coazione a ripetere. Eppure questo riportare il «medievale» Francesco nel cuore del Barocco appare come un tema che rivela una continuità di sensibilità ecclesiale, tra il tempo della cristianità e quello, molto più controverso, della Riforma cattolica in cui il pittore opera.

È guardando i quadri di Francesco esposti al Palazzo dei Diamanti che si intuisce una falla nello schema che vorrebbe Zurbarán pittore religioso di maniera, un «minore» come tanti. Non solo perché alcune di quelle cadute mistiche fanno pensare a Caravaggio (con tutte le dovute differenze), ma soprattutto perché il contesto di luce e stile sembra comunicare una percezione profonda della dimensione religiosa: una «mistica» che non è solo estasi ma anche «notte oscura», cammino dell'anima nel buio come nel trattato di Giovanni della Croce. Due quadri in mostra a Ferrara comunicano queste sensazioni. Il primo è una «natura morta», anomala rispetto alla produzione sacra di Zurbaran. Un quadro in apparenza semplicissimo, con un piatto su cui poggiano una rosa e una tazza quasi colma d'acqua. E però le luci che, da fuori, «giocano» intorno a quegli oggetti vanno ben al di là della «maniera».

Il secondo quadro, giustamente posto a conclusione della mostra, è l'«autoritratto» di Zurbarán stesso: un pittore sta in piedi di fronte al Crocifisso. Nella sinistra ha la tavolozza, la destra è poggiata sul cuore, lo sguardo intenso è diretto al Cristo morente, che sembra ricambiarlo. Non c'è contesto: niente guardie, né pie donne piangenti, né le croci dei ladroni. Lo sfondo è un marrone malato, lo stesso colore per il profilo di collina e per il cielo. Come se il pittore si trovasse finalmente solo di fronte all'origine stessa della vita e della fede, nel momento in cui, quel Venerdì, non c'è più alcuna luce sul mondo. Somerset Maugham lo descrive così: «È il ritratto di un uomo consumato dagli anni, dalla povertà, dall'abbandono e dalla delusione. Ha la mano destra premuta contro il cuore e guarda verso l'alto il suo Signore morente con l'umile, patetica adorazione di un cane picchiato ingiustamente».

Autoritratto, o testamento? Quel che è certo è che il pittore, giunto alla fine della vita, si mette di fronte alla «morte di Dio» come di fronte alla sua stessa propria morte: e prova a dire che lì, in quella croce appesa nel nulla, c'è comunque la risposta che ha cercato per tutta l'esistenza. Oppure anche questo, come nella tradizione del «siglo de oro», è sogno e teatro, illusione e ombra, come in Calderon e Gongora? La domanda rimbalza negli occhi di chi guarda.

La mostra «Zurbarán» è aperta, fino al 6 gennaio 2014, al Palazzo dei Diamanti (corso Ercole I d’Este 21), Ferrara. Orario: tutti i giorni, 9-19, compreso il 25 e 26 dicembre. Aperture speciali: il 31 dicembre fino alle 23.30, dal 1 al 6 gennaio 2014 fino alle 22.30. Info, www.palazzodiamanti.it

Marco Bonatti



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