Come è doloroso tornare dai genitori

Qualcuno li ha banalmente definiti «bamboccioni», ma quello che manca ai giovani italiani non è la voglia di lasciare la casa dei genitori, quanto la possibilità economica di farcela da soli. Il 60,6 per cento di chi ha iniziato una vita autonoma, infatti, è tornato da mamma e papà e ci è rimasto per un periodo superiore ai tre mesi. È uno dei dati che emerge dal «Rapporto Giovani» dell’Istituto Toniolo e promosso dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza, che ha coinvolto i giovani italiani tra i 18 e i 29 anni.

Numeri che fanno riflettere e che arrivano in concomitanza con le preoccupazioni dell’Ocse sul futuro pensionistico dei giovani nel nostro Paese: con il sistema previdenziale contributivo, infatti, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, chi ha solo contratti a termine rischia la povertà in vecchiaia.

La famiglia rappresenta l’unica certezza di chi è diventato maggiorenne nel nuovo millennio. Una sicurezza che diventa vero e proprio ammortizzatore sociale. Il 10,1 per cento dei giovani fuori casa è stato costretto a tornare da mamma e papà a causa delle difficoltà economiche. Il 14,6 per cento perché ha perso il lavoro o non gli è stato più rinnovato il contratto. E addirittura il 55,1 per cento perché ha finito gli studi e non ha ancora trovato un’occupazione.

Per migliorare le proprie prospettive lavorative il 42 per cento dei giovani al Sud e il 54 per cento al Nord è disposto anche a trasferirsi all’estero. «Soltanto offrendo una maggiore stabilità nel lavoro dei giovani è possibile renderli più liberi. Liberi di progettare il proprio futuro, liberi di mettere su famiglia, liberi di diventare cittadini maturi: persone che si assumono responsabilità e che in questo modo contribuiscono da protagonisti alla vita della comunità», ha commentato Carlo Edoardo Valli, presidente della Camera di Commercio di Monza e Brianza.

Rispetto alle generazioni precedenti, poi, la carriera, più che procurare prestigio sociale, è intesa come miglioramento della possibilità di auto-realizzazione e richiede impegno personale. È molto sentito anche l’aspetto del reddito. Tra i giovani italiani che hanno un lavoro solo il 7,5 per cento si dichiara pienamente soddisfatto del proprio guadagno, mentre il 47 per cento lo è poco o per nulla. Il 49,2 per cento, invece, è comunque soddisfatto della propria situazione finanziaria.

Ma cosa si può fare per aiutare i ragazzi a costruirsi un futuro autonomo? L’abbiamo chiesto ad Andrea Rosini, professore associato di Demografia della facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano.

Quali sono le difficoltà che i giovani italiani devono affrontare oggi?

Le nuove generazioni trovano più difficoltà, sia rispetto al passato sia relativamente ai coetanei degli altri Paesi, nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine e nel realizzare le condizioni per formarne una propria. Le difficoltà di stabilizzazione occupazionale e di un’adeguata remunerazione producono anche una grave perdita di fiducia in primis verso la società, che non offre loro spazio e non li valorizza, ma poi anche verso se stessi e le proprie capacità. Con l’esito di rivedere al ribasso le proprie aspettative o a dar di meno rispetto a quanto potrebbero, lasciando in larga parte sepolti i loro talenti.

I ragazzi come affrontano questi problemi?

Sicuramente i giovani sono molto consapevoli delle scarse opportunità dovute alla crisi economica e alle particolarità del nostro sistema-Paese. Per questo cercano di attuare alcune strategie per migliorare la propria condizione. Innanzitutto si adattano rispetto a quello che il mercato offre. Non sono per niente schizzinosi e sono disposti ad accettare anche occupazioni che richiedono titoli di studio bassi o che danno una bassa remunerazione. Sono poi pronti anche ad allontanarsi da casa. Ma quando non riescono più ad affrontare i costi dell’autonomia, perché il contratto finisce, sono costretti a ritornare a vivere con i genitori. Questo dato, di “marcia indietro”, è comunque molto positivo, perché indica che i giovani vogliono provare a fare anche da soli. E infine la maggioranza di chi vive al Nord e al Sud è pronta ad andare all’estero per crescere professionalmente: una possibilità concreta che dimostra un’ulteriore modalità di adattamento a un sistema che offre possibilità sempre minori. Purtroppo senza l’aiuto della famiglia in Italia si fa fatica ad attraversare le tappe del percorso che porta a diventare adulti.

Cosa si potrebbe fare, dunque, in concreto?

Tutto quello che negli altri Paesi funziona e che da noi manca. Per prima cosa in Italia, più che in altri Stati, europei e non, prima si studia e poi si entra nel mercato del lavoro. Si pensa a trovare un impiego solo il giorno dopo la laurea. In questo modo i giovani non hanno avuto esperienze di lavoro precedenti e fanno più fatica ad inserirsi. Altrove il mix studio-lavoro funziona meglio, grazie all’ampio uso di stage e tirocini pagati che risultano disponibili per la maggioranza dei ragazzi, non solo universitari. Così, quando si entra, si ha già esperienza e capacità di orientarsi e di trovare alternative valide.

Servirebbe anche potenziare i servizi per l’impiego?

Certo. Da noi mancano politiche attive del mercato del lavoro. All’estero ci sono centri per l’impiego che funzionano e aiutano i giovani a ricollocarsi: offrono loro un sostegno per rafforzare le proprie competenze, danno indicazioni su come sta evolvendo il mercato del lavoro, forniscono una consulenza professionale concreta. E poi c’è il sussidio di disoccupazione, uno strumento che permette di rimanere autonomi con l’obbligo di seguire il percorso che si è concordato con la consulenza di psicologi e formatori dei servizi per l’impiego. In questo modo chi perde il lavoro non è abbandonato a sé stesso, ma viene aiutato a rimettersi in gioco, e anche i più giovani riescono a mantenere la propria autonomia senza richiedere l’aiuto della famiglia.

Che altro si potrebbe attuare a livello di politiche nazionali?

Un terzo intervento fondamentale è investire in ricerca. Lo sviluppo e l’innovazione sono importanti per aiutare i giovani a trovare più facilmente un’occupazione, perché alla loro età hanno più skills per essere innovativi. In Italia servirebbero, quindi, politiche industriali che possano usare le idee dei giovani per espandere il mercato. Questo permetterebbe di aumentare l’occupazione giovanile e allo stesso tempo di rendere le aziende più competitive a livello internazionale.

Un’altra strategia abituale all’estero e assente da noi?

Sì. Tra i Paesi che hanno adottato questa politica c’è infatti la Germania, una delle realtà straniere che attrae sempre più i giovani italiani. Il governo tedesco spende molto in innovazione e sviluppo e in quel territorio la disoccupazione giovanile è tra le più basse in Europa, nonostante la crisi. Competenze spendibili, nuove idee e disponibilità a mettersi in gioco devono anche in Italia potersi incontrare con una domanda più aperta da parte delle aziende. Solo così si può creare un circolo virtuoso che possa espandere le possibilità di lavoro e allo stesso tempo accrescere la competitività del sistema-paese.

Cristina Conti



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