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Virzì, buona la primaDoveva essere un festival “pop”, cioè una rassegna popolare, contaminata, trasversale, aperta a tutti, E così è stato. Con la piena approvazione del pubblico. La 31ª edizione del Torino Film Festival, la prima diretta dal regista di «Ovosodo» e «Tutta la vita davanti», Paolo Virzì, ha radunato infatti sotto la Mole, dal 22 al 30 novembre, 92 mila spettatori (contro le 75 mila presenze del 2012), facendo registrare un aumento degli incassi del 31 per cento rispetto all’anno scorso (267 mila euro contro 205 mila). Cifre significative, che sottolineano il netto gradimento nei confronti della formula più a largo raggio e meno di nicchia scelta da Virzì per il Tff 2013. Sale piene, proiezioni esaurite, code davanti alle biglietterie. Motivo, per Virzì, di «orgoglio e soddisfazione». Il regista livornese, d’altronde, alla vigilia dell’inaugurazione l’aveva sottolineato a più riprese: «Quest’anno dal festival non escludiamo niente, c’è dentro di tutto. Nel segno della bellezza, naturalmente. Sarà un festival raffinato e popolare, come nella tradizione, grazie alla burbera attenzione dei torinesi, che sono i primi spettatori. Non ho voluto sciupare nulla, mettendoci il mio entusiasmo. Posso assicurare, però, che questo non è un festival che dà fregature, e l’ho sperimentato in tanti anni da spettatore…». Arrivato a Torino a raccogliere la difficile eredità di Nanni Moretti e Gianni Amelio, i due suoi illustri predecessori, Virzì (supportato dalla sua affiatata squadra) non ha dunque deluso le aspettative. E’ piaciuta la retrospettiva sul cinema americano degli anni ’70, ha intrigato il concorso lungometraggi, vetrina ammaliante di opere prime, seconde e terze, ha incuriosito quel vasto contenitore che risponde al nome di Festa Mobile, firmato da Emanuela Martini, così come la novità alla quale Virzì teneva forse di più, Europop, la sezione che ha presentato i blockbuster degli altri Paesi europei, pellicole che hanno avuto ottimi incassi in patria ma che rischiano di rimanere inedite (e quindi invisibili) in Italia. A caldo, però, appena calato il sipario, Virzì non ha sciolto le riserve sul proprio futuro. Al Tff lo lega un contratto di due anni, ma nonostante questa prima, felice esperienza da direttore, il regista toscano ha preso tempo e ha chiesto una pausa di riflessione: «Il 2013 per me è stato un anno intenso», ha detto, «adesso voglio concedermi qualche giornata di sosta per riflettere». In vista c’è la promozione del suo nuovo film, «Il capitale umano» (in uscita il 9 gennaio), un’opera complessa e personale. E c’è da ripensare all’annoso problema delle date del festival, troppo a ridosso di quelle di Roma. Virzì ha ammesso che «ci sono riflessioni in corso», forse, dopo le immancabili scintille con la rassegna capitolina, che ha chiuso i battenti cinque giorni prima dell’apertura di Torino, l’anno prossimo si comincerà una settimana dopo, come auspicano le istituzioni locali, in modo che il Tff finisca a ridosso della festa dell'Immacolata. In ogni caso, al di là delle incognite sul 2014, il responso dell’edizione 2013 non ha scontentato quasi nessuno. Il miglior film del concorso è risultato «Club sandwich» del messicano Fernando Eimbcke, già in gara a Torino nel 2008 con «Sul lago Tahoe» e vincitore, per lo stesso film, del premio Fipresci e dell’Alfred Bauer Award alla Berlinale. Nel suo nuovo lungometraggio, giocato sui ritmi e i tempi della commedia, troviamo due personaggi, Hector e Paloma, un ragazzino di quindici anni e la sua giovane madre, che passano le vacanze in un albergo vicino al mare. Tra loro c’è piena armonia, fino a quando sulla scena arriva una ragazza, Jazmín, anche lei in vacanza con i genitori, che fa subito colpo su Hector. In «Club sandwich» Eimbcke ripropone l’approccio minimalista utilizzato come registro espressivo nei suoi film precedenti, senza produrre particolari evoluzioni nel racconto ma manifestando un talento evidente nel far emergere le contraddizioni e le fragilità di adolescenti e adulti. Senza sfumare, per questo, nel macchiettiamo, mostrando invece, attraverso ampie pennellate ironiche, le crepe esistenziali dei protagonisti dei film. Un’altra madre sola, un altro figlio, appena più piccolo: in una megastruttura abitativa della periferia di Caracas, Junior, nove anni, vive con la giovane mamma Marta, vedova e disoccupata. I rapporti tra i due sono tutt’altro che amorevoli. A disturbare Marta, infatti, è l’ossessione del figlio per il proprio aspetto: Junior vorrebbe potersi stirare i capelli, crespi e scarmigliati, e vestirsi da cantante, così da fare bella figura nella foto di classe. Per Marta, però, impegnata nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, i vezzi del figlio risultano intollerabili. «Pelo malo» di Mariana Rondón, che ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura e quello per la miglior attrice (Samantha Castillo), oltre a molti dei premi collaterali, ruota attorno ad un nucleo ristretto di personaggi indifesi, ai quali mancano i mezzi per ripararsi, a livello emotivo, dalle ripercussioni di un’esistenza ferita. Lo sguardo della regista venezuelana osserva i soprusi e le incomprensioni familiari, interrogandosi sulle propensioni istintuali e i doveri incondizionati dell’amore materno. Un terreno scivoloso sul quale, invece, il film non slitta, portando un contributo di riflessione acuto sul disagio affettivo. È invece andato a «2 automnes 3 hivers» di Sébastien Betbeder il premio speciale della giuria (capitanata dallo sceneggiatore e regista Guillermo Arriaga), mentre a Gabriel Arcand di «Le demantelement», diretto da Sébastien Pilote, è stato attribuito il premio per il miglior attore. Il primo, come «Pelo malo», è scandito da un’idea apparentemente irrilevante, il desiderio di andare a correre di un uomo di trentatré anni, Arman, che attraverso quella decisione è intenzionato a cambiare vita. Al parco, correndo, incontra e si scontra con Amélie, una ricercatrice in cerca di se stessa. A turno i due personaggi si raccontano allo spettatore, incrociando coi pensieri la vita di amici, genitori, fidanzati ed ex fidanzati. Al destino della coppia è legato infatti quello di Benjamin, il migliore amico di Arman, che ha un infarto in seguito a una caduta: mentre i mesi passano, le vite dei tre si incrociano, tra ricordi, incidenti e storie d’amore. La commedia esistenziale di Betbeder vive di sussulti rohmeriani, intrisa di malinconie e di slanci, di gesti riparatori e di nuove tensioni, utilizzando il calendario stagionale con efficacia e non, passivamente, solo come snodo temporale delle vicende. «Le demantelement», invece, ha per protagonista un uomo non più giovane che vive in una fattoria, padre di due figlie ormai grandi che non nutrono alcun interesse per la campagna. Gaby vive da solo, senza particolari problemi, ma quando però una delle figlie, in procinto di separarsi, gli chiede un aiuto economico, egli, che non dispone del denaro necessario, non esita a fare ciò che è necessario per amore della famiglia: vendere la fattoria e i terreni di proprietà per trasferirsi in un piccolo appartamento nel paese più vicino. Un film tutto sommato prevedibile, quello di Sébastien Pilote, illuminato, però, dal profilo asciutto, nobile, mai retorico, del suo protagonista. A suscitare i maggiori entusiasmi, tra i film in concorso al Tff, è stato «La mafia uccide solo d'estate» (ripagato da un meritato premio del pubblico), che racconta con ironia e leggerezza, ma con profondo senso etico, la Sicilia e Cosa Nostra. Opera d’esordio dietro la macchina da presa di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif, palermitano, classe 1972, personaggio televisivo di successo, inviato delle «Iene» e autore de «Il testimone», ma anche aiuto regista di Marco Tullio Giordana per «I cento passi»), «La mafia uccide solo d'estate» è un film che dissacra i boss mafiosi e restituisce l’umanità dei grandi eroi dell’antimafia. Una pellicola che getta uno sguardo nuovo e mai banale sugli ultimi vent’anni di omicidi eccellenti attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, che diventa grande in una città affascinante e terribile, Palermo, dove vigono le regole spietate della mafia ma in cui c’è ancora spazio per la passione e il sorriso. «La mafia uccide solo d’estate», infatti, è una storia d’amore che narra i tentativi di Arturo di conquistare il cuore della sua amata Flora, una compagna di banco di cui si è invaghito alle elementari e che vede come una principessa. Sullo sfondo di questa tenera e divertente storia, scorrono e si susseguono gli episodi di sangue accaduti in Sicilia tra gli anni ‘70 e ‘90. Mettendo insieme commedia, romanticismo, cinema-verità e giornalismo d’inchiesta, mescolando la finzione cinematografica con i materiali di repertorio (i funerali di Dalla Chiesa e quelli della scorta di Borsellino) e la testimonianza privata con i fatti di cronaca, il film d’esordio di Pif, pur con qualche coloritura eccessivamente naïf, ottiene un effetto a tratti dirompente. Regalando al pubblico un finale che mete i brividi e, al tempo stesso, commuove intensamente.
Paolo Perrone
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